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Palmi Sala del Consiglio Comunale
Giovedì 23 febbraio 2023

di Natale Pace

La fine è là … a partire dalle pagine che il lettore sta leggendo. Dal silenzio delle immagini che scorrono nella sua mente. A partire dal ritmo di una proposizione, dalla vibrazione che una parola, una frase evocano richiamano riportano alla vita. Perché è là… nel silenzio delle immagini, che ogni frase gesto o fotogramma che transitano dentro noi… è sì una fine … Ma, al tempo stesso anche, l’inizio di un nuovo processo, di un nuovo sguardo. Di un nuovo principio. Di un accadere ultimo inatteso sempre originario. Di un singolare ininterrotto raccontare.
È questo il destino del linguaggio. La ventura di ogni narrare descrivere comunicare umano.
È questo l’itinerario intrapreso per il romanzo che Natale Pace, sindacalista scrittore poeta, giornalista del nostro tempo, ci consegna con un titolo emblematico, “Alex”: un vero e proprio invito allo scavo dei sentimenti, delle emozioni. Delle passioni umane.
“Alex”, infatti, oltre che il titolo dell’opera, è il personaggio protagonista del libro. Sul suo volto s’innesta, si specchia l’immagine straordinaria di una donna fiera, orgogliosa delle proprie radici. Ma, al tempo stesso, tracima e trabocca la dolcezza e il sorriso di una donna innamorata della sua terra, la Calabria. Di quella regione non certo e soltanto geografica, ma d’una Calabria interiore. Di quella Calabria ferita... sanguinante... senza forze! Di quella terra generosa, incontenibile che vede i suoi figli partire uno dopo l’altro, verso improbabili oceani di sogno e lidi sconosciuti.

 

di Natale Pace

Il periodo che va dal 7 marzo 1933 al 24 aprile 1937, quello che io chiamo il “Quadriennio del dolore” di Antonio Gramsci, se anche non fertile per quanto riguarda la produzione di scritti politici e di critica sociale (a mio modesto parere, egli ha lavorato molto poco. Mentre, per esempio, nel periodo precedente egli aveva scritto 21 dei 33 Quaderni, gli ultimi 12 sono redatti tutti durante il ricovero alla clinica Cusumano di Formia, è estremamente importante, addirittura basilare per capire compiutamente il percorso biografico del sardo e come quegli avvenimenti dolorosi, lo stato di salute sempre più precario, le atroci sofferenze fisiche accompagnate dal decadimento psicologico, come ogni volta succede negli ammalati gravi, abbiano contribuito alla sua mitizzazione personale e politica.

         E proprio in questi quattro anni si svilupperà compiutamente il sostegno prima fisico, poi morale, poi di stimolo psicologico, operato a suo favore da Tatiana Schucht, sorella della (forse) moglie Giulia che gli stette vicino, annullando sé stessa, i propri precedenti interessi di vita, la sua stessa salute, se è vero che gli sopravvisse solo per pochi anni. Tania non si mosse dal suo fianco per tutti gli undici anni di detenzione, Tania raccolse il suo ultimo respiro alle 4 e 10 del 27 aprile 1937, a Tania furono indirizzate oltre i tre quarti delle lettere dal carcere, Tania provvedeva al suo necessario e a volte al di più, Tania provvide alla cremazione e sepoltura e solo grazie a Tania vennero salvati e a noi tramandati i preziosi scritti in carcere.

A gennaio del 1933, gracile di salute e di anni, ma tenace nel voler rimanere il più vicino possibile ad Antonio, Tania si trasferisce a Turi. Io credo che il “sacrificio” di Tatiana per oltre dieci anni accanto a Gramsci e alle sue vicende, vada ben oltre la solidarietà e l’affetto parentale. Tania si sostituì letteralmente alla (forse) moglie Giulia che non si recò mai in Italia durante la detenzione e dopo la carcerazione non vide più vivo Gramsci.  C’era qualcosa di ben più che l’affetto familiare in Tania verso il prigioniero dei fascisti, anche se mai ella si permise il minimo cedimento rispetto alla immagine della cognata che sostituisce la sorella “impedita” da malattie e forse da disposizioni di partito di stare accanto a Gramsci, neppure quelle volte che lo stesso Antonio la sollecitò velatamente a uscire allo scoperto.

di Natale Pace

Lascio la strada statale n.106 a Ravagnese e inizio la salita costeggiando la vallata della fiumara Valanidi, il cui nome greco, “Valanidios” significa zona ricca di ghiande e dunque, immagino che nei tempi dei tempi qui i maiali andavano per la maggiore e redditizio fosse il loro allevamento.

A dire il vero, per tutto il tratto da Ravagnese e fino a Rosario Valanidi di querce, né piccole, né grandi, non se ne sono viste, per cui viene il dubbio che di porcili e allevamenti suini, ormai, la  gente del luogo ha deciso di farne a meno. Più verosimile l’ipotesi che siano stati tolti gli alberi per fare posto alle case, edificate parecchio selvaggiamente, al punto che la strada è ridotta appena a una carreggiata, groviera di buche, abitazioni non ricche, non ville opulente, semplici case che ormai la costeggiano senza soluzione di continuità. Eppure l’auto sale regolare, gimkanando tra i fossi, ma con percorso dolce che si lascia apprezzare per certi angoli dove puoi fermarti e godere la vista del mare Jonio, che poco più a destra verso nord sullo Stretto si sposa col Tirreno e delle coste, calabrese di qua, siciliana di fronte, con l’Etna che spadroneggia su tutto, bianco e ammantato, quel filo di fumo che il maestrale allunga parallelo all’orizzonte verso sud-est.

Sono pochi chilometri da percorrere sulla via provinciale che, rasentando la fiumara, mi condurranno alla meta. Gustando, centellinando la salita metro dopo metro, attraverso le piccole frazioni abitate ormai da poche anime, sempre più poche man mano che la strada si allontana dal mare e dalla estrema periferia reggina, l’una attaccata all’altra, che hanno nomi greci e di santi: San Gregorio (San Grioli), Croce Valanidi, (con le frazioni Bovetto, Luppinari, Pernasiti), San Giuseppe, Oliveto (‘U Livitu, oltrepassato il quale rasento Candico, per giungere a Rosario Valanidi (a sua volta diviso in Serro Valanidi, Ribbata e Cubba).

Più sopra, ma oggi non ci arrivo, c’è Trunca, piccola frazione di circa seicento anime dove la fiumara Valanidi ha inizio. Ancora sopra Trunca, a volerci andare, è Santa Venere, terra dove viene relegato dal padre a governare il gregge Leo Arcadi, il Selvaggio reso celebre da  Saverio Strati e che allo scrittore di Sant’Agata del Bianco fece vincere il Campiello 1977.

Di Natale Pace

Domenico Zappone pubblicò il volumetto “Le cinque fiale” nel 1952: aveva 41 anni.

Il libro comprendeva, oltre al racconto lungo omonimo, altri tre racconti: Fine di un anno, Fine del deserto, Fine di una guerra.

Considerando l’idiosincrasia, la quasi puerile timidezza dello scrittore palmese per le pubblicazioni di sue opere, possiamo considerare le cinque fiale una vera rarità, preziosa rarità, accompagnata, molto più tardi da “Calabria nostra” proposta antologica di scritti tutti di autori calabresi per i ragazzi delle scuole medie per la quale, come spesso accade in questi casi, diceva la bella Nanù, sua moglie, si ebbe la rabbia e il rancore degli scrittori esclusi e il silenzio degli inclusi, salvo naturalmente rarissime eccezioni.

Dopo la morte di Zappone, i quattro racconti vennero ripubblicati insieme ad altri 11 inediti, per una iniziativa editoriale della Frama Sud del 1984, curata dall’amico, forse il più caro, il Sharo Gambino, con qualche ritocco, dovuto probabilmente alla scoperta di nuovi dattiloscritti, messi a disposizione dello scrittore serrese da Nanù Isola Zappone, sotto il titolo “Il mio amico Hemingway e altri racconti” (qui, per esempio “Fine del deserto” cambia titolo e diventa “Il deserto”).