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di Benedetta Borrata

Lo storico Giovanni Villani narra nella sua Nuova Cronica, (IX, 136) che Dante morì a Ravenna il primo luglio del 1321 <essendo tornato da ambasceria da Venegia in servigio dei signori da Polenta, con cui dimorava; e in Ravenna dinanzi alla porta della chiesa maggiore fu seppellito a grande onore, in abito di poeta e di grande filosafo.>
La chiesa maggiore è quella dei Frati Minori francescani e la data del primo luglio è corretta dai Boccaccio in 14 settembre, la più accreditata dai dantisti.
Dopo il faticoso viaggio da Venezia, tra paludi e miasmi fangosi, il poeta giunge a Ravenna tremante per la febbre, la febbre malarica, e in breve tempo muore, in esilio, all'età di 56 anni, assistito dai figli Pietro, Jacopo e Antonia. Scrive Boccaccio: <…al suo Creatore rendè il faticato spirito; il quale non dubito che ricevuto non fosse nelle braccia della sua nobilissima Beatrice, con la quale nel cospetto di Colui ch'è sommo bene, lasciate le miserie della presente vita, ora lietissimamente vive in quella...>. (G. Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, I Red., 86)

 

 

 

 

di Anna Foti

Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d'onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d'alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l'alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l'insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.

Tra nostalgia e dramma si stagliano nel cielo della Storia questi versi di "Ulisse" di Umberto Saba. Il poeta triestino conobbe la persecuzione, in quanto figlio di madre ebrea nell'Italia delle leggi razziali, l'esilio dall'Italia e il ritorno nella sua Trieste.

 

 

 

 

di Anna Foti 

“A voi fieri calabresi
che accoglieste ospitali me straniero
nelle ricerche e indagini
infaticabilmente cooperando
alla raccolta di questi materiali
dedico questo libro
che chiude nelle pagine
il tesoro di vita
del vostro nobile linguaggio”

Le parole possono resistere come segni di identità di un popolo anche quando tutto intorno invoca morte, distruzione e violenza; gli idiomi tratteggiano la ricchezza di un paese anche dentro un campo di prigionia che, pur togliendo la libertà di azione non sopprime il pensiero, il lingua e la cultura, spesso scrigni millenari di laboriose comunità. Lo ha scoperto e non lo ha più dimenticato, il giovane soldato tedesco Gerhard Rohlfs (Berlino 1892 – Tubinga 1986) che, durante la Prima guerra mondiale, nelle persone che ha incontrato in Italia, ha conosciuto ed esplorato un Paese ricco di dialetti e lingue antiche. Un’esperienza di tale intensità ispirazione per i suoi studi che, dopo la guerra, lasciò la Botanica per abbracciare la Glottologia. 

di Anna Foti

La forza della parola scritta e fermata sotto le bombe e gli spari, oltre il filo spinato di un campo di internamento, nella penombra di un nascondiglio o nella città militarmente occupata; parole capaci di diventare semi di memoria e intensa testimonianza contro l’oblio e l’indifferenza. Parole che "dicendo" fanno in modo che ciò che custodiscono non possa essere cancellato o rinnegato, non possa essere dimenticato. Intense voci nella Storia e della Storia, queste giovani donne sono ancora un grande esempio di coraggio e tenacia e un prezioso monito di resistenza alla forza cieca della violenza che avrebbe voluto annientarle completamente, alla macchina inarrestabile di sterminio che ebbe un consenso largo, colpevole, ingiustificabile.

La scrittura sublima l'essenza di un'umanità perduta, smarrita e riscatta quella oltraggiata dalla sua stessa aberrazione e dall’odio razzista ed etnico, alimentando il diritto al sogno di un futuro. Una trama di parole che si intrecciano con la Storia, raccontano l’Olocausto e anche altri drammi come quello della guerra nei Balcani. Uno scrigno di ricordi e sentimenti che sfidano il tempo e che, grazie ai legami familiari, di amore e di amicizia che ci arricchiscono in vita e oltre, invece di andare dispersi nelle pieghe del tempo e di soccombere alla furia distruttiva della guerra, vengono salvati, custoditi e poi donati a tutti noi che abbiamo il dovere civile di accoglierli e custodirli a nostra volta.