fbpx

di Anna Foti

La forza della parola scritta e fermata sotto le bombe e gli spari, oltre il filo spinato di un campo di internamento, nella penombra di un nascondiglio o nella città militarmente occupata; parole capaci di diventare semi di memoria e intensa testimonianza contro l’oblio e l’indifferenza. Parole che "dicendo" fanno in modo che ciò che custodiscono non possa essere cancellato o rinnegato, non possa essere dimenticato. Intense voci nella Storia e della Storia, queste giovani donne sono ancora un grande esempio di coraggio e tenacia e un prezioso monito di resistenza alla forza cieca della violenza che avrebbe voluto annientarle completamente, alla macchina inarrestabile di sterminio che ebbe un consenso largo, colpevole, ingiustificabile.

La scrittura sublima l'essenza di un'umanità perduta, smarrita e riscatta quella oltraggiata dalla sua stessa aberrazione e dall’odio razzista ed etnico, alimentando il diritto al sogno di un futuro. Una trama di parole che si intrecciano con la Storia, raccontano l’Olocausto e anche altri drammi come quello della guerra nei Balcani. Uno scrigno di ricordi e sentimenti che sfidano il tempo e che, grazie ai legami familiari, di amore e di amicizia che ci arricchiscono in vita e oltre, invece di andare dispersi nelle pieghe del tempo e di soccombere alla furia distruttiva della guerra, vengono salvati, custoditi e poi donati a tutti noi che abbiamo il dovere civile di accoglierli e custodirli a nostra volta.

Kitty e Mimmy, per esempio, custodiscono la speranza in un tempo feroce scandito da terrore e orrore. Due nomi, due amiche immaginarie, due diari a cui due bambine affidano pensieri e speranze in un tempo in cui uccidere un uomo è un gesto banale perché lasciarlo in vita è un atto occasionale. Due diari destinati a non rimanere segreti ma a rappresentare un drammatico spaccato di oppressione e guerra, di ciò che continuiamo a dire che non dovrà mai più essere. A quelle pagine sono affidati momenti di una quotidianità travagliata, descritta con la semplicità disarmante degli occhi di un’infanzia rubata che ha conosciuto prematuramente la morte e l’umana capacità di profanare la vita, la speranza e il sogno, di torturare, perseguitare, uccidere e scegliere la guerra.

Tradotti in decine di lingue, pubblicati rispettivamente nel 1947 e nel 1993, "Il diario di Anna Frank" di Annelies Marie (che tutti conosciamo come Anne) Frank, e "Il diario di Zlata" di Zlata Filipovic sono legati da una Storia atroce di violenza e barbarie. Kitty e Mimmy sono in realtà i nomi che le due giovanissime donne attribuiscono a due confidenti discrete e fidate, antidoto alla solitudine, all'oscurità di un'epoca e alle tenebre della guerra che, con la loro forza e la resistenza civile delle parole, hanno squarciato.

Nel silenzio della paura e nel fragore delle bombe, frammenti di vita logorata da terrore, torture, spari e morte, non si sono lasciati consumare completamente fino a giungere ai giorni nostri e brillare come fiammelle di luce inesauribile. Fiammelle che arderanno a lungo, fino a quando qualcuno sentirà il dovere civile di leggere, raccontare e tramandare. Pratiche di cittadinanza attiva e consapevole da non disperdere; ritenerle superate, noiose e inutili sarebbe gravissimo e pericoloso. «Questo è stato, ci ricorda Primo Levi e dunque può ancora essere».

I diari di Anne Frank e di Zlata Filipòvic illuminano, infatti, la memoria sull’orrore di un genocidio che ha messo a nudo le atrocità di cui l'umanità è capace, la terribile possibilità di una normalità segnata dalla crudeltà e dall'odio. L'olocausto sterminò il popolo ebraico - sei milioni di vittime di cui un milione e mezzo di bambini e ragazzi - e che negli anni Novanta trascinò a morire oltre 100 mila persone, rendendo vittime di stupro etnico migliaia di donne.  Solo nell’assedio di Sarajevo – il più lungo nella storia bellica moderna durato dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996 - dodicimila furono le vittime e oltre 50 mila i feriti.

La fame, il freddo e la malattia. I nascondigli, il terrore, le fughe e le persecuzioni. La morte e la sopravvivenza. Due diari che educano alla coscienza e all'esercizio del dovere civile che è la Memoria e che, in modo diverso, testimoniano un destino di salvezza, oltre l'orrore, la guerra e la violenza. Simboli della Storia che ha segnato il Novecento con il sangue, l'odio e le offese più indegne arrecate dall'umanità alla stessa umanità.

Anne Frank è una giovanissima ebreo - tedesca, sognatrice e innamorata della vita che credeva di avere ancora davanti. Invece la furia della Storia invasa dalla violenza le ha tolto, in un attimo, il futuro e la libertà. Morta di tifo a soli quindici anni, con la sorella Margot nel campo di concentramento nazista di Bergen Belsen tra il febbraio e il marzo del 1945, dopo sette mesi di prigionia, freddo, malattia e stenti, si era rifugiata ad Amsterdam, con il padre Otto, la madre Edith e la sorella Margot, dopo l’ascesa del potere nazista. Vivere in Germania, nella sua Francoforte, era diventato pericoloso, persino la cittadinanza le era stata revocata. Già nel 1933 la famiglia Frank si era risolta per l'esilio in Olanda. Da apolide, quindi, Anne crebbe ad Amsterdam di cui sognava di diventare un giorno cittadina. Vissero al numero 37 di Merwedeplein fino al 1942 quando la situazione si fece pericolosa anche nella capitale olandese e la famiglia si dovette trasferire nell’alloggio segreto ricavato presso la sede della ditta in cui lavorava Otto Frank, in Prinsengracht 263. Lì vissero con l'altra famiglia dei Van Pels, con il figlio Peter, che Anne cita tra gli altri nel suo diario e che sarebbe morto nel maggio 1945 nel campo di concentramento di Mauthausen in Austria, e con Fritz Pfeffer. Lì, fino alla cattura e alla deportazione, Anne scrisse il suo diario, un piccolo quaderno a quadretti bianco e rosso regalatole per il suo tredicesimo compleanno, il 12 giugno 1942, prima di scomparire per sottrarsi alle convocazioni per la deportazione nei campi di lavoro, nel luglio di quello stesso anno. In quello che Anne chiama nel suo diario «l'alloggio segreto», in Prinsengracht 263, restarono nascosti per due anni. L’irruzione delle SS - non si seppe mai se e chi fu a tradirli - ebbe luogo il 4 agosto del 1944. Così Anne fu deportata all’età di quindici anni insieme alla famiglia. La prima tappa fu il campo olandese di transito di Westerbork. Poi la famiglia fu divisa e diverse furono le destinazioni in Germania: a Bergen Belsen Anne e Margot, a Birkenau la madre Edith e ad Auschwitz il padre Otto. Anne morì di tifo con Margot, alcune settimane prima della liberazione del campo da parte dell’esercito inglese, nel 1945. Al padre Otto, unico sopravvissuto della famiglia, il diario di Anne fu consegnato quando, tornato al numero 263 di Prinsengracht ad Amsterdam, dove un tempo si erano nascosti e dove oggi sorge un museo, Miep Gies, dipendente della ditta in cui lavorava anche Otto Frank, nominata Giusta tra le nazioni, dopo averlo trovato a seguito dell’assalto delle SS e custodito, glielo consegnò. Miep Gies, rischiando la vita, era stata tra i cittadini olandesi che aiutarono Anne, la famiglia Frank e altri ebrei in pericolo, a nascondersi. Otto, morto nel 1980 a Basilea, decise di pubblicare il Diario facendo dono al mondo di una testimonianza preziosa, autentica e senza tempo.

«L'alloggio segreto col nostro gruppo di otto rifugiati mi sembra uno squarcio di cielo azzurro attorniato da nubi nere, cariche di pioggia. L'area rotonda e circoscritta su cui stiamo è ancora sicura, ma le nubi si avvicinano sempre di più a noi e sempre più stretto diventa il cerchio che ci separa dal pericolo incombente. Siamo immersi nelle tenebre e nel pericolo e urtiamo gli uni contro gli altri cercando disperatamente una via di salvezza. Guardiamo tutti in basso dove gli uomini combattono, guardiamo in alto dove regnano la quiete e la bellezza, e intanto siamo tagliati fuori da quella tetra massa che non ci lascia salire in alto ma sta dinanzi a noi come un muro impenetrabile, che ci vuol schiacciare ma non può ancora. Non posso far altro che gridare e implorare: "O cerchio, o cerchio, allargati, apriti, lasciaci uscire!"», scrive Anne, durante la permanenza nell'alloggio segreto.

Prima di compiere il giro del mondo, il Diario fu pubblicato per la prima volta nel 1947 nella capitale olandese con il titolo “Het Achterhius” (“Il retrocasa”). In Italia la prima pubblicazione risale al 1954 con i caratteri di Einaudi. Ne seguirono altre fino alla più recente con Rizzoli nel 2017. Tradotto in oltre 60 lingue e venduto in oltre 30 milioni di copie, fu ispirazione di trasposizioni teatrali e cinematografiche, tra queste una delle prime, adattata da Frances Goodrich e Albert Hackett, diretto nel 1959 dal regista George Stevens, con Millie Perkins nel ruolo di Anne, "La storia di Anne Frank" diretto nel 2001 da Robert Dornhelm, con Hannah Taylor-Gordon nel ruolo di Anne Frank e Ben Kingsley in quello del padre Otto, e "Mi ricordo Anna Frank", diretto nel 2010 da Alberto Negrin.

Dal 2009 il diario di Anne Frank è inserito nell'Elenco delle Memorie del mondo dell’Unesco. Il manoscritto originale è conservato nell'Istituto nazionale degli archivi sulla seconda guerra mondiale di Amsterdam. Qualche pagina è esposta al museo a lei dedicato sempre nella capitale olandese, dove ci fu anche un’altra giovane donna che sfidò il dramma della Shoah e della persecuzione con la scrittura.

Mentre Anne si nascondeva, credendo ostinatamente nella vita e nell'umanità, al numero 6 della Gabriel Metsustraat, sempre tra i canali di Amsterdam, la scrittrice olandese Etty Hillesum, anche lei deportata ad Auschwitz dove neppure trentenne morì nel novembre del 1943, iniziava a scrivere il suo inno alla Vita e alla Fede.

«Sono molto stanca.
Sono in grado di sopportare questo tempo presente, lo capisco persino un poco.
Se sopravvivrò a questo tempo e se allora dirò: la vita è bella e ricca di significato, bisognerà pur credermi.
Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani, liberandoci dalle piccolezze e dalle cose superflue di questa vita, è stato inutile (...). Cammino accanto agli uomini come se fossero piantagioni e osservo quant’è cresciuta la pianta dell’umanità», scrive Etty.

Il diario abbraccia tre anni della sua vita (1941 – 1943) e la sua pubblicazione è postuma di quasi 40 anni, essendo il diario stato dato alle stampe solo nel 1981. Nella versione integrale sono pubblicate anche le lettere, scritte in gran parte dal campo di transito olandese di Westerbork da dove, come Anne, anche lei passò.

Figlia di Levi e di Rebecca, arrivata in Olanda dalla Russia delle sommosse antisemite (pogrom) di fine 1800, Etty ebbe due fratelli Mischa e Jaap. Sensibile e intelligente, appassionata di lingue, dovette interrompere lo studio di quelle Slave ma invece concluse quello di lingua e letteratura Russa. Si interessò della psicologia analitica junghiana, entrando in stretto e anche personale contatto con lo psico-chirologo Julius Spier.

Nel 1942, lavorando come dattilografa presso una sezione del Consiglio Ebraico, avrebbe potuto salvarsi dalla deportazione. Invece scelse di non avvantaggiarsi della sua posizione e seguì la sua famiglia e il suo popolo prima presso il campo di transito olandese di Westerbork, dove portò soccorso e amore agli internati, e poi ad Auschwitz, nel 1943 all'età di 28 anni, morì con la sua famiglia. Solo il fratello Jaap non fu deportato ma morì in Germania due anni dopo mentre rientrava nei Paesi Bassi.

Ispirata da un altruismo definito radicale, così di lei fu scritto, anche Etty riuscì con i suoi occhi intrisi di vita ad andare oltre ogni orrore e a descrivere con poeticità, come «pezzetto di brughiera recintato dal filo spinato», persino quel campo di Westerbork, dove le autorità  confinavano gli ebrei prima della deportazione.

La scrittura come ‘arma’ di vita, come fucina di memoria e antidoto all’oblio e alla dimenticanza, ha unito le esperienze di Anne e Etty, vittime della shoah, il cui destino le portò ad Amsterdam per scrivere e poi nei campi di sterminio nazisti per morire. I loro diari, scritti come atto di amore verso la Vita, sono al centro della pubblicazione dal titolo “Diari a confronti: Anna Frank ed Etty Hillesum” (edizioni Ancora), di Enzo Romeo, giornalista originario di Siderno (Reggio Calabria), fino al 2014 responsabile della redazione Esteri del Tg 2 di cui è caporedattore e vaticanista.

Quelle pagine lasciano che Anne e Etty siano con noi ancora oggi nell'unico modo di cui la Memoria ci fa dono: nel cuore piuttosto che davanti agli occhi.

Quello della giovane bosniaca Zlata Filipòvic fu invece un destino di sopravvivenza. Nata a Sarajevo e undicenne all’epoca del lungo assedio della capitale bosniaca, Zlata, oggi quarantenne, vive a Dublino. Lei riuscì a scappare con la sua famiglia e a rifugiarsi a Parigi nel dicembre del 1993. Il suo è diventato il racconto di tutti i bambini ai quali la guerra ha rubato l’infanzia e costante è il suo impegno per dare loro voce. La chiamano l'Anne Frank di Sarajevo per la portata della sua testimonianza rispetto ad una guerra che ha insanguinato i Balcani, 40 anni dopo la Shoah.

Zlata collabora con l’Unicef, supportando i bambini vittime dei conflitti. Nel 2006, con Melanie Challenger, ha pubblicato con il titolo "Giorni rubati. Gli orrori della guerra nei diari dei ragazzi" (Cairo Editore), i racconti di un’infanzia di guerra, passando in rassegna i conflitti degli ultimi cento anni, dalla Prima Guerra Mondiale alla guerra in Afghanistan e in Iraq, passando per la guerra in Vietnam e in Medioriente, unendo la sua voce a quella di altri giovanissimi che i conflitti armati hanno costretto alla paura o alla sopravvivenza ai propri cari. Il suo è un impegno al fianco di «tremila bambini morti sotto le bombe, invalidi che s'incontrano per le strade privi di un braccio o di una gamba», scrive Zlata. 

Destini, storie e città che tornano ad intrecciarsi. Zlata ricomincia la sua vita negli anni Novanta a Parigi, città che mezzo secolo prima era stata tra gli emblemi dell'occupazione nazista in Europa durante la seconda Guerra Mondiale e durante la persecuzione degli Ebrei. Nella Parigi occupata, infatti, tra il 1942 e il 1944 anche una giovane e talentuosa violinista affidò ad un diario il racconto delle sue giornate, prima della fine di tutto. Lei si chiamava Hélène Berr. Anche per lei una stella gialla fu il lasciapassare per Bergen Belsen dove, come Anne, morì di tifo nel 1945 all'età di 24 anni, poco prima della liberazione del campo. Studentessa alla Sorbona, dove lavorò come bibliotecaria volontaria, era appassionata di lingua e letteratura inglese e, in particolare, di William Shakespeare e John Keats, delle cui citazioni arricchì il suo diario. Con l'inasprirsi delle leggi razziali non le fu consentito di insegnare ma ella non demorse e continuò a studiare e a scrivere. L'ultimo appunto risale al 15 febbraio 1944 e termina con le tre parole agghiaccianti ispirate al Macbeth, «Orrore! Orrore! Orrore». Grazie alla sua lungimiranza, nonostante quell'orrore, Hélène ebbe la prontezza di consegnare il suo diario alla Storia per il tramite della cuoca di casa. La pagine del diario sono indirizzate al fidanzato Jean Morawiecki che con gli eredi Berr ne ha autorizzato la pubblicazione nel 2009. Con i caratteri di Frassinelli, l'edizione italiana si intitola "Il Diario di Hélène Berr" e reca la prefazione dello scrittore e sceneggiatore francese Patrick Modiano. Un affresco delicato e reale di una vita strappata all'incanto di un'età piena di speranze. «Soffro nel vedere la cattiveria umana, soffro nel vedere il male abbattersi sull’umanità, ma dato che non mi sento di far parte di nessun gruppo razziale, religioso, umano per sostenermi ho solo i miei conflitti e le mie reazioni, la mia coscienza personale», scrive Hélène.

Nelle sue descrizioni, la Francia occupata raccontata anche nelle pagine fitt, scritte sui pochi fogli di carta in tempo di guerra, da Irene Némirovsky, scrittrice francese di origine ucraina, autrice di "Suite Francese", opera postuma che custodisce una storia dentro la Storia. Un'opera incompiuta di cui la stessa aveva il presentimento, nonostante sognasse un libro di mille pagine, costruito come una sinfonia composta da cinque parti. L'arresto dei nazisti, per la sua origine ebraica, avvenne a Issy-l'Évêque nel 1942, quando di parti ne aveva scritte soltanto due. Aveva tentato fino alla fine, non mancando di scrivere anche degli appunti. Pochi mesi dopo la deportazione, morì di tifo ad Auschwitz. Era il 1942 e aveva 41 anni.

«Il libro in sé deve dare l'impressione di essere semplicemente un episodio... com'è in realtà la nostra epoca, e indubbiamente tutte le epoche. La forma, dunque... ma dovrei dire piuttosto il ritmo: il ritmo in senso cinematografico... collegamenti delle parti fra loro. Tempête, Dolce, dolcezza e tragedia. Captivité? Qualcosa di smorzato, di soffocato, il più possibile cattivo. Dopo non so».

Quel manoscritto ha viaggiato in una valigia insieme alle cose che non si vogliono perdere o dimenticare, anche quando tutto intorno crolla. Dopo oltre 50 anni, nel 2004, è stato pubblicato in Francia, e poi in tutto il mondo, per volere della figlia Denise Epstein che lo aveva custodito. «Sulle tracce di mia madre e di mio padre, per mia sorella Élisabeth Gille, per i miei figli e i miei nipoti, questa Memoria da trasmettere, e per tutti quelli che hanno conosciuto e ancora oggi conoscono il dramma dell'intolleranza», scrisse nella dedica la stessa figlia Denise.

In Italia nel 2005 il primo editore di "Suite Francese" fu Adelphi. Seguirono numerose altre edizioni, fino all'ultima di Bompiani nel 2020. Anche un film è stato tratto nel 2014 con la regia di Saul Dibb.

La diaristica, in quanto genere letterario intessuto da memorie personali e testimonianze storiche, di cui relativamente alla Shoah le pagine di Anne Frank costituiscono la pietra miliare, rappresenta un patrimonio prezioso per il mantenimento della Memoria, la conoscenza delle Storie e della Storia della Shoah e la consapevolezza che quelle azioni di annientamento totale di cui ebrei nell'Europa occupata furono vittime innocenti furono realmente poste in essere. Tra le altre pagine di questa imprescindibile eredità letteraria, altre giovani e appassionate donne la cui vita venne brutalmente spezzata.

"Fuori c'è l'aurora boreale. Il diario di Ruth Maier. Una rifugiata ebrea in Norvegia" è il titolo della biografia della giovane ebrea austriaca, definita dalla stampa israeliana la “Anna Frank norvegese”. Come Irene Némirovsky, morì ad Auschwitz nel 1942 a soli 22 anni, e il suo diario, edito da Salani nel 2010 e recante la prefazione dello scrittore e poeta norvegese Jan Erik Vold, consta di quattrocento pagine tratte da un copioso corpus di circa millecento pagine manoscritte e trecento di corrispondenza della giovane.

Nata a Vienna, Ruth era una giovane donna piena di talenti. Emigrata in Norvegia prima delle persecuzioni razziali, visse a Lillestrøm. Venne arrestata a Oslo durante un rastrellamento. A bordo della nave Donau raggiunse la Germania con altre centoottantasette donne, quarantadue bambini e centosedici uomini. Ritenuti non idonei al lavoro furono immediatamente condotti alle camere a gas ad Auschwitz. Anche Ruth ebbe questo drammatico destino. «La gente scompare. Io voglio vivere! Lasciare qualcosa dietro di me, un documento che dice che io sono stata qui», scrive Ruth che riuscì in questo intento grazie al suo diario scritto dall'età di dodici anni. In particolare degli anni compresi tra il 1933 e il 1942 - aveva scritto fino a qualche settimana prima del rastrellamento - rimanevano otto quaderni, con cinquanta lettere, altri testi in prosa e poesia e, vista anche la sua passione artistica, anche una serie di acquerelli e disegni. Dobbiamo alla sua amica, la poetessa norvegese Gunvor Hofmo, il merito di aver custodito i diari per oltre cinquant’anni.

Uno scrigno di sentimenti e ricordi che ancora si schiude alla Memoria. Nel 2020, dopo essere già stato pubblicato in altri paesi europei e negli Stati Uniti, Neri Pozza ha dato alle stampe "Il diario di Renia Spiegel", l'Anne Frank polacca. Appassionata di poesia, come la sorella lo era dello spettacolo - nota come la "Shirley Temple polacca" -  condivise attraverso le sue pagine un intenso viaggio nei tre anni compresi tra 1939 - poco prima dell'invasione della Polonia da parte della Germania, e il 1942, anno in cui appena diciottenne fu uccisa dalla Gestapo. Costretta a trasferirsi nel ghetto di  Przemyśl,  era stata aiutata ad evadere dal fidanzato, Zygmunt Schwarzer (Zygo), figlio di un importante medico ebreo. Con il suo aiuto, lei e la sua famiglia erano riusciti a nascondersi al numero 10 della via Moniuszki, ma poi furono scoperti. Renia fu uccisa il 30 luglio 1942. La madre e la sorella Arianka riuscirono a salvarsi, scappando a Varsavia, poi in Austria e infine a New York, dove la sorella mutò il nome in Elizabeth Bellak. Zygmunt, profondamente innamorato di Renia, era riuscito a salvare il diario prima di essere deportato. Fu lui a scrivere le ultime pagine tra il 27 luglio  e il 31 luglio 1942.

«È finita! Prima di tutto, caro diario, ti prego perdonami per essere entrato nelle tue pagine e aver cercato di portare avanti il lavoro di qualcuno di cui non sono degno. Lascia che ti dica che Renuska non ha ottenuto il permesso di lavoro di cui aveva bisogno per evitare di essere deportata, quindi deve restare nascosta. Anche i miei genitori si sono visti rifiutare il visto. Giuro davanti a Dio e alla storia che salverò le tre persone che mi sono più care al mondo, dovesse costarmi la mia stessa vita. Mi aiuterai tu, Dio!».

Zygo sopravvisse ma non riuscì a salvare i suoi cari. Non riuscì a salvare neppure la sua Renuska nel modo in cui sperava di farlo. Salvò però il suo diario, le sue parole, speranza vibrante e preziosi fili di una memoria necessaria per non dimenticare, per testimoniare e tramandare il senso di una vita vissuta fino in fondo e fino alla fine. Così fece e lo consegnò, dopo la guerra, alla sorella Elizabeth che lo custodì per 70 anni, finché la figlia Alexandra, nipote di Renia, si batté per leggerlo e poi per pubblicarlo negli Stati Uniti e in tutto il mondo, con le poesie scritte dalla zia Renia che conteneva.

«Ho amato, ho sognato, ho desiderato.

Tutto era silenzioso, luminoso e rinfrescato,

neve dei fiori di melo per terra.

Siamo rimasti seduti là, in carne e ossa

pallidi per la felicità

bianchi di fiori.

Il sole ha avuto pietà di noi

e ci ha coperto di rugiada.

Non è vero, non è successo!

Ma forse potrebbe succedere un'altra volta».