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di Anna Foti

"Appresi, qualche tempo fa, che anche in Calabria funzionò, durante l'ultima guerra, un campo di concentramento per ebrei. Strano che il fatto non fosse di conoscenza comune e che le notizie ricevute fossero vaghe e confuse. Ne parlai e a Natalia Ginzburg, credendo di rivelarle cosa che potesse ignorare; ma ella era informata di tutto. Sapeva che nessuno degli internati era stato ucciso né era stato seviziato in emulazione coi lager tedeschi. E' stato anzi un campo speciale, distintosi per umanità di trattamento sugli altri costruiti in Italia. Trattenne fino a 1500 ebrei , prevalentemente fuggiti dai paesi d'Europa dove si era esteso il regime nazista, oltre un numero notevole di stranieri sorpresi dalla guerra in Italia e ritenuti , per gli indizi più vaghi, antifascisti. Il campo si chiamava Ferramonti, ed ancora il luogo è così designato. Trovasi presso Tarsia, in provincia di Cosenza, nella valle del Crati, sulla linea ferroviaria Sibari/Cosenza, ed è situato più lungo il versante tirrenico , che in quello ionico", scriveva così lo scrittore calabrese Mario La Cava in un articolo sul campo di Ferramonti di Tarsia, pubblicato sul Corriere della Sera nel 1984 e riproposto nel 2011 dal Quotidiano della Calabria in occasione della Giornata della Memoria.

Uomo di cultura del profondo Sud, originario di Bovalino, Mario La Cava condivise la scoperta del campo di Ferramonti con la scrittrice Natalia (Levi) Ginzburg, nata da padre ebreo triestino e madre milanese cattolica nel profondo Sud, in Sicilia, cresciuta in Piemonte nel profondo Nord e che con la sua copiosa opera segnava il Novecento. Suo marito, Leone Ginzburg, di origini russe, era già morto nel 1944 per le torture inferte dai tedeschi allo scopo di costringerlo a collaborare. Torture alle quali non cedette, pagando con la vita la sua resistenza.

Quella scoperta spinse Mario La Cava a recarsi in visita a Ferramonti di Tarsia, dove il campo sorgeva e dove, grazie all'incontro con l'ex magazziniere, fece un giro all'interno e apprese la storia dell'ultimo e magnanimo comandante del campo, il maresciallo di origini reggine Gaetano Marrari che poi volle conoscere, non potendo tuttavia parlargli, per via dello stato influenzale dello stesso maresciallo ormai novantatreenne.

"Potei parlare col genero, Rizzi che con commuovente semplicità aveva fatto della vita del maresciallo un mito da raccontare ai posteri.(...) La sua vita giovanile era stata avventurosa. A 15 o a 16 anni si imbarcò clandestinamente su una nave da carico, arrivando in America,dove vivevano gli zii che lo accolsero con la meraviglia che si può immaginare. Gli pagarono il viaggio di ritorno e lo rispedirono a casa. Partecipò a tutte le guerre italiane, meritando medaglie e riconoscimenti. Privo di titoli di studio si arruolò nel Corpo di pubblica sicurezza, coltivando l'ideale di difendere le persone dabbene, dall'insidia dei facinorosi. Era di servizio a Roma col grado di maresciallo, quando nel 1940 fu scelto a dirigere il campo di concentramento per ebrei ed antifascisti stranieri a Ferramonti. “Perché proprio lui e non altri?”. Forse perché i superiori sapevano che viveva solo a Roma e i familiari in Calabria, rispose Rizzi. Può darsi che la scelta non fosse determinata da particolari meriti fascisti. Il regime spesso si orientava a caso. D'altra parte nel 1940 l'Italia non era stata ancora sopraffatta dalle direttive germaniche e naziste. La persecuzione contro gli ebrei poteva apparire formale, non sostanziale, e se non legittima, adeguata al grave momento che l'Italia attraversava e alla necessità di non disturbare gli alleati tedeschi. Anche i servizi più ingrati ai quali si fosse costretti, potevano essere ingentiliti dall'umanità di che li avesse compiuti. Ed il maresciallo Marrari, uomo semplice e senza studi, fu all'altezza dei suoi umani ideali. Le testimonianze degli internati parlano chiaro; e parlano anche a nome di chi è rimasto in silenzio".

Nel suo articolo Mario La Cava documentò la particolare umanità del maresciallo Marrari, riportando anche una delle tante missive che egli ricevette dopo la chiusura del campo, quale segno di stima e riconoscenza. "Il Dott. Lartin Ruben, di Milano, in una lettera scritta da Ferramonti il 25 ottobre 1943, poco prima della sua liberazione, scrive: “a nome di tutti gli internati del campo sento il dovere, prima di partire di ringraziarvi per il particolare trattamento, contrariamente alle direttive della Milizia con la quale eravate sempre in continua lotta perché pretendeva che voi ci vessaste. Vi siamo riconoscenti per i soccorsi che ci avete prodigati durante l'incursione aerea sul campo quando abbiamo avuto 16 feriti e 2 morti tra gli internati. Vi siamo anche grati dell'interessamento che avete avuto per salvarci dal rastrellamento che le truppe tedesche volevano effettuare nel Campo per condurci con loro nella ritirata verso il nord. Dobbiamo a voi la nostra salvezza per averci protetto, rispondendo al fuoco dei tedeschi e per averci fatto ricoverare nel bosco accanto al fiume Crati (sotto la vostra responsabilità) onde sfuggire alle ire delle truppe tedesche in ritirata. Tutto dobbiamo al vostro coraggio per avere piazzato le mitragliatrici all'ingresso del Campo quando il 19/09/43 i tedeschi volevano impadronirsi degli internati”.

Non risparmiò dettagli circa la vita dentro il campo che gli era stata raccontata e osservazioni acute, alle quali aveva già abituato i lettori che, attraverso questo suo contributo, poterono scoprire anche questa pagina di Storia scritta in Calabria. Riferì ancora La Cava sulla figura centrale di Gaetano Marrari.

"La capacità culturale di molti ebrei e il loro grado sociale favorirono i buoni rapporti col maresciallo Marrari. Egli era sensibile al merito. Sotto di lui un medico scienziato, Schwartz, potè ottenere il permesso di operare al cranio un infermo di Roggiano. Il pittore Kron sposò, da internato, una ragazza di Tarsia. Altri matrimonio vennero celebrati serenamente tra gli stessi ebrei. Il maresciallo ricorda - secondo la testimonianza del genero Rizzi - il nome di alcuni illustri internati, il pittore austriaco Michael Fingenstein, il commerciante in case prefabbricate Max Laster. Ma in ogni caso non vorrei dare ad intendere che la vita fosse un idillio e che il campo di Ferramonti fosse un albergo. Il sovraffollamento era penoso, casi di scabbia, di malaria non mancavano. Ci fu uno che morì non si sa bene se per denutrizione o malattia. La malinconia rodeva i cuori. Non poteva bastare ad alcuni la facoltà di ricostituire la famiglia,cucinando da sé i pasti, cocendo nel forno della propria baracca il pane. Contrasti con alcuni stranieri antifascisti, e precisamente con quelli Jugoslavi che si rifiutavano di salutare la bandiera italiana, con la scusa che fosse uno straccio scolorito, turbarono i giorni. Il maresciallo ricorse alla sua autorità, senza eccessi, per imporre la disciplina. In ogni modo si arrivò al giorno del passaggio dei tedeschi in ritirata e alla complessa opera di salvataggio degli ebrei, compiuta dal maresciallo. Dite voi se non sarebbe bastato questo per meritare la medaglia del giusto. E' un riconoscimento che non concede Israele, mi disse il genero Rizzi, con la speranza che io ne parlassi pubblicamente".

Nel suo racconto anche il volto di una Calabria in cui, dopo essere approdati strappati alla patria dalla Storia, qualcuno scelse di restare. Fucina di vocazione editoriale e culturale fu proprio Cosenza per la famiglia austriaca di origine ebraica Brenner, proveniente da Vienna. Internato a Ferramonti durante la Seconda Guerra Mondiale, Gustav Brenner, infatti, rimase in Calabria dopo la chiusura del campo. In una delle uscite per l’acquisto di derrate alimentari, che la direzione benevola del campo consentiva, aveva conosciuto Emilia Iaconianni, che sarebbe diventata la sua fidanzata e poi sua moglie. Nel 1950, dopo il matrimonio, Gustav Brenner aprì una libreria e poi fondò la casa editrice “Casa del Libro”, le cui redini oggi sono nelle mani del figlio Walter che l’ha rinominata Edizioni Brenner, in onore del padre.

"A Ferramonti gli internati, potevano fare cose che in altri campi erano impensabili: giocare a pallone,organizzare concerti, seguire riti religiosi,ottenere permessi di libera uscita. L'editore Brenner di Cosenza mi assicurò che suo padre fuggito da Dachau e preso in Italia, dove era finito a Ferramonti, poteva recarsi fino a Roggiano Gravina per fare acquisti in conto del campo. Ivi conobbe quella che poi diventò la sua fidanzata. Finita la guerra si sposarono e a Cosenza nel 1950 potè aprire una libreria editrice seguendo l'esempio del suo genitore che l'aveva a Vienna, significativa la continuità della vocazione editoriale".

A corollario di questo legame della Calabria con il popolo ebraico, lo stesso Mario La Cava ebbe modo di richiamare un primato importante della città calabrese di Reggio e di definire nello stesso articolo "memorabile il fatto che proprio gli ebrei in Calabria, prima della loro cacciata, svolgessero attività editoriali, stampando il Pentateuco in ebraico, per la prima volta in Italia, proprio a Reggio Calabria".

La vicenda della Shoah era stata da Mario La Cava, giornalista, osservata e raccontata già in occasione del processo ad Adolf Eichmann, iniziato a Gerusalemme nell'aprile del 1961 (quindici anni dopo il processo di Norimberga). La Cava assistette quale inviato per il Corriere Meridionale di Matera, probabilmente tra le testate più piccole accreditate a seguire il grande evento di portata storica.

“Cercai i suoi occhi, ma essi nemmeno per un momento si prestavano ad essere guardati. Eichmann ignorava il pubblico. All’annunzio dell’arrivo del Tribunale, scattò in piedi con moto di militaresca eleganza e precisione. La pelle della sua faccia non sembrava viva, ma conciata e tirata sulle ossa, come se tale fosse stata resa dall’indifferenza dell’animo e dall’esercizio costante della volontà malvagia .Aveva labbra sottili, taglienti di chi non aveva mai sorriso ad alcuno. Le mani, tozze e robuste davano un certo turbamento inspiegabile: come fossero le mani di chi sa colpire crudelmente”, scrisse Mario La Cava su "Viaggio in Israele" (Fazzi Editore, Lucca, 1967, pp. 123), in cui dedicò una decina di pagine (77-88) al funzionario del Reich, esperto di questioni Ebraiche e promotore della Soluzione finale concretizzatasi nella shoah, processato e condannato a morte a Gerusalemme nel 1962, dopo un anno di processo e oltre un decennio di latitanza in Argentina sotto falsa identità.

Anche Mario La Cava rimase, infatti, colpito dall’impassibilità agghiacciante di Eichmann, uomo saldo nella sua obbedienza, per il quale la fedeltà al regime significò abdicare alla facoltà di pensare e di discernere il bene dal male. Hannah Arendt, anche lei a Gerusalemme per seguire le 120 sedute del processo come inviata del settimanale New Yorker, il cui resoconto ed i cui commenti furono pubblicati nel 1963 nel saggio  La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme" ("Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil"), per prima scrisse che "le sue azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso".

La permanenza a Gerusalemme per Mario La Cava fu ispirazione per il romanzo-reportage "Viaggio in Israele" (edito per la prima volta nel 1967 da Fazzi, poi da Brenner nel 1985 e infine nel 2011 da Edicampus), nelle cui pagine lo scrittore bovalinese ebbe modo di approfondire la conoscenza di quel paese, Israele, al centro dell'attenzione mondiale al momento del processo ad Adolf Eichmann.

Egli non seguì solo il processo ma visitò la terra di Israele sicché il suo diario narra della situazione di un popolo e del suo destino dentro la Grande Storia, confermando la capacità di guardare al mondo nel suo complesso, scandagliando la storia e le sue molteplici sfumature. La scrittura anticipò quella forte impronta civile che manifestò, ad esempio, anche nella storia di Slavoj Slavik, giovane attivista antifascista, narrata nel romanzo “Una stagione a Siena” (Managò 1988) in cui raccontò del suo periodo universitario.

In quel suo "Viaggio in Israele", Mario La Cava compì un'analisi su quella convivenza tormentata tra popoli e culture, come si evince da uno scritto rimasto inedito fino al 2011 e pubblicato sulle colonne del Quotidiano della Calabria. L'articolo è consultabile sul sito dell'associazione Caffè Letterario Mario La Cava, con sede a Bovalino, presieduta da Domenico Calabria, genero dello scrittore e marito della figlia Grazia. L'associazione è animata da amici e familiari, tra i quali i figli, Rocco impegnato nella valorizzazione di tanti inediti del padre e residente a Bovalino, Marianna e Caterina, residenti fuori Calabria.
"I palestinesi a conclusione di tante lotte sono diventati uguali agli israeliani nel rispetto che si deve verso le loro esigenze di vita; e io sono sicuro che i miei amici di Israele, se potessero essere interrogati, non lo negherebbero.

I Palestinesi sono quelli che non hanno potuto vivere con i fratelli 'arabi', che li hanno lasciati sotto le tende, dopo la guerra del '48. Il sentimento della patria perduta nacque e si sviluppò negli anni dell'abbandono e della fame. E' questa una realtà irreversibile.  

Gli Israeliani sono coloro che, in quanto ebrei dispersi nel mondo, non hanno potuto vivere con i loro fratelli 'cristiani'. L'antica patria si tinse per essi, nella sciagura, dei colori del sogno. La riconquistarono per necessità, col sacrificio del lavoro e con le arti dell'ingegno, diventando guerrieri nelle prove supreme".

https://www.mariolacava.it/wp-content/uploads/2020/12/LA-CAVA-E-LATTUALITA-DI-UN-ROMANZO.pdf