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di Anna Foti

"I greci lo chiamavano Monte lucente, perché quando la neve lo ricopre,  le navi dal mare lo vedono brillare. E' l'Aspromonte, la terra degli ultimi, la terra in cui ancora si rispettano i padri, la terra dei poeti, la terra della civiltà". Il regista calabrese Mimmo Calopresti affida al poeta del paese, Ciccio Italia, interpretato da Marcello Fonte (attore reggino premiato a Cannes come Miglio Attore per "Dogman" nel 2018), l'incipit della narrazione di una comunità ai margini della storia e che la Storia ha annoverato solo per consacrarne l'arretratezza e la povertà. Il film “Aspromonte, la terra degli ultimi” (2019) obbliga quella Storia a riconoscere le ragioni di una disperazione, a rispettare quella fatica e a scoprire che ultimo non è solo chi resta indietro ma anche chi resiste più a lungo, chi alla fine abbandona solo perché è stato ripetutamente abbandonato a sua volta, chi in quell'abbandono estremo vede l'unica ragione per poter guardare avanti. La comunità è quella di Africo, nel cuore dell'Aspromonte, il massiccio montuoso che tra il mar Ionio e il mare Tirreno attraversa l'entroterra della provincia estrema della Calabria Meridionale, quella di Reggio.

L'anno è il 1951, per Africo l'anno dell'alluvione e del non ritorno, in cui tutto è drammaticamente difficile, persino venire al mondo. L'arrivo di un medico fino al paese è un lusso. Anche le rivendicazioni essenziali rimangono inascoltate e quell'indifferenza lascia emergere la staticità delle autorità rispetto ad un isolamento che una semplice strada di collegamento tra il paese e la Marina mitigherebbe, consentendo al medico di salire e agli abitanti di Africo di scendere in un tempo ragionevole. La strada incarna con forza quel diritto innato a lottare per non essere lasciati morire; diritto che deve coincidere con quello di vivere dignitosamente, altrimenti nessun futuro è immaginabile.

di Natale Pace

Attilio Scarcella, docente di filosofia, assessore alla cultura nel comune di Palmi negli anni Novanta, si è occupato di problematiche scolastiche e giovanili, prestando la propria consulenza al Senato della repubblica. Con L’anello che non tiene si è aggiudicato il Premio internazionale Cinque Terre 2014 e il Premio speciale della Giuria internazionale Città di Cattolica 2014.

Campo dei Fiori
di Attilio Scarcella

 “Giovedì mattina in Campo di Fiore fu abbrugiato vivo
quello scelerato frate domenichino di Nola,
heretico ostinatissimo, et havendo di suo capriccio
formati diversi dogmi contro nostra fede,
et in particolare contro la Santissima Vergine et Santi,
lo scelerato volse ostinatamente morir in quelli;
diceva che moriva martire et volentieri,
et che se ne sarebbe la sua anima ascesa
con quel fumo in paradiso”
(Avviso al popolo di Roma due giorni dopo)
Campo dei Fiori,
mercoledì delle Ceneri 17 febbraio 2021,
aspettiamo Francesca al ristorante e non arriva.

di Benedetta Borrata

Lo storico Giovanni Villani narra nella sua Nuova Cronica, (IX, 136) che Dante morì a Ravenna il primo luglio del 1321 <essendo tornato da ambasceria da Venegia in servigio dei signori da Polenta, con cui dimorava; e in Ravenna dinanzi alla porta della chiesa maggiore fu seppellito a grande onore, in abito di poeta e di grande filosafo.>
La chiesa maggiore è quella dei Frati Minori francescani e la data del primo luglio è corretta dai Boccaccio in 14 settembre, la più accreditata dai dantisti.
Dopo il faticoso viaggio da Venezia, tra paludi e miasmi fangosi, il poeta giunge a Ravenna tremante per la febbre, la febbre malarica, e in breve tempo muore, in esilio, all'età di 56 anni, assistito dai figli Pietro, Jacopo e Antonia. Scrive Boccaccio: <…al suo Creatore rendè il faticato spirito; il quale non dubito che ricevuto non fosse nelle braccia della sua nobilissima Beatrice, con la quale nel cospetto di Colui ch'è sommo bene, lasciate le miserie della presente vita, ora lietissimamente vive in quella...>. (G. Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, I Red., 86)

 

 

 

 

di Anna Foti

Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d'onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d'alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l'alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l'insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.

Tra nostalgia e dramma si stagliano nel cielo della Storia questi versi di "Ulisse" di Umberto Saba. Il poeta triestino conobbe la persecuzione, in quanto figlio di madre ebrea nell'Italia delle leggi razziali, l'esilio dall'Italia e il ritorno nella sua Trieste.