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di Anna Foti
«In un mondo che immagina il Natale occasione per costosi regali o lauti banchetti, io continuo a viverlo con sentimenti assai diversi. Ostinatamente ritorno alla mia infanzia felice e ai canti notturni della novena che rendeva l’attesa della venuta del Messia carica di speranza e di gioia interiore. Nell’antica chiesa di Brancaleone Superiore al mattino non c’era un orario fisso. Il sagrestano quando aveva terminato il suo primo sonno, verso le tre o le quattro del mattino, invitava il popolo col tocco di tre campane che racchiudevano novecento anni di storia e facevano arrivare una voce imperiosa e tonante, nel silenzio della notte, ai paesi vicini, sorpresi ogni volta con un cuore nuovo. Dalle campagne, dalle frazioni vicine accorrevano pastori e contadini, signorotti e guardiani, vecchi e giovani e in un baleno la chiesa era strapiena di gente infreddolita e digiuna dalla mezzanotte per potersi accostare all’Eucarestia: allora anche l’acqua rompeva il digiuno. Una ciurma di bambini sedeva intorno all’altare cinquecentesco inseguendo nei mosaici di marmi multicolori fantasmi e fantasie; la porticina in legno del Tabernacolo non ci stancavamo mai di guardarla: il Buon Pastore aveva sulle spalle un pecorella stanca e spaurita e ci trasmetteva una dolcezza inesprimibile. Il parroco grecanico nella sua cadenza della Bovesia iniziava le suppliche a Gesù Bambino: ”Venite, Gesù Bambino, nell’anima mia e purgatela, nei pensieri miei e dirigeteli. Gesù Bambino, datemi le vostre sante virtù”. Una breve pausa e mia madre e la signorina Teresa intonavano subito “Quandu nostra Madonna caminava, o chi cori cuntentu chi ‘ndavia …”.
Il ritmo era quello di una nenia che serbava nella sua semplicità dialettale la storia viva e vivificante di un passato pregno di religiosità fedele ed autenticamente cristiana. Il coro si allargava e ci si sentiva in compagnia di quell’ “Angiolu che la ‘mbasciata si portau: stanotti s’avi a fari lu Messia”.
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di Natale Pace
Sharo Gambino era uno dei pochi amici di Mimmo Zappone che potevano gloriarsi della parola "intimo". Cinque giorni prima, soltanto cinque giorni prima, il primo novembre 1976 d'ognissanti, Gambino passa dallo svincolo autostradale di Palmi, di ritorno da Scilla dove era stato per essere intervistato da Beppe Breviglieri. E’ tentato di uscire a Palmi e far visita a Zappone. L'ha fatto tante volte, tante volte è stato bene con lui e anche Zappone. Ma il pensiero della moglie e dei figli che lo aspettano a Serra San Bruno, la preoccupazione di fare tardi lo sviano dal pensiero e tira dritto. Gambino, perse l'occasione preziosa di vederlo un'ultima volta vivo. e chissà, con l'ennesima bevuta fino a sbronzarsi e cominciare a scherzare su tutto e tutti, non poteva essere che gli toglieva dalla mente il proposito di prendere quei maledetti tranquillanti?
Il 6 novembre 1976 una eccessiva dose di medicinali lo uccideva, ultimo dei grandi intellettuali che cercarono nella morte quella quiete loro negata dalla vita. La Calabria perdeva la penna più pungente del giornalismo meridionale: Palmi uno dei suoi figli più preziosi.
Esattamente sette giorni dopo la morte, lo scrittore di Serra San Bruno pubblicava sul Giornale di Calabria questo bellissimo ricordo.
“Giorno d’Ognissanti ero stato a Scilla per un’intervista che per “Speciale TG1” Beppe Breviglieri ha voluto farmi sul fenomeno mafioso in Calabria. Al ritorno, allo svincolo autostradale per Palmi, m’era venuto il desiderio di andare a salutare Domenico Zappone che non vedevo da qualche mese. Poi il pensiero che era già mezzogiorno e mia moglie stava lottando da sola con quelle quattro pesti nate dal nostro matrimonio e perciò tirai dritto.
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di Anna Foti
Le «città perdute» per la prima donna italiana fondatrice e direttrice di un giornale (Il Mattino) Matilde Serao, le «città distrutte» per il giornalista e scrittore Edoardo Scarfoglio, fondatore del Corriere di Roma e cofondatore de Il Mattino, «in un dicembre d'uragani e mare avvelenato» secondo un giovanissimo Salvatore Quasimodo, in «una battaglia quale mai non si raccontò nella storia degli uomini» per il poeta romagnolo Giovanni Pascoli: così furono descritti gli scenari apocalittici delle città di Messina Reggio Calabria dopo il funesto sisma del 1908.
L’eco della sciagura naturale scosse profondamente gli intellettuali del tempo. La parola scritta raggiunse luoghi lontani diffondendo il dramma di un sisma particolarmente spaventoso e innescando una catena di solidarietà che coinvolse persone singole e Stati. Di intensità pari a 7,2 gradi della scala Richter e 11 gradi della scala Mercalli, la scossa, con epicentro nel reggino tra Archi e Ortì Inferiore, generò la più grave catastrofe naturale della storia italiana ed europea per numero di vittime, il cui dato è ancora oggi sospeso tra le 90 mila e le 120 mila. Noto come il terremoto di Messina, per le perdite certamente più numerose ma non per questo più drammatiche di quelle che vi furono anche a Reggio, il sisma colpì con potenza distruttiva, ma con intensità diversa, le due città. Con ogni probabilità si tratta della catastrofe naturale italiana più grave dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. che, narrata da Plinio, distrusse Pompei, Ercolano e Stabia.
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di Natale Pace
Ho conosciuto Rodolfo Chirico il 5 ottobre 2005 a Reggio Calabria all’Istituto Magistrale “T. Gullì”. Ovviamente sarebbe più corretto dire “ho incontrato”, perché per conoscerlo, già conoscevo Chirico avendo letto le sue più belle poesie in “Io nasco disobbediente” edizione del 1992 di Forum / Quinta Generazione, volume che si pavoneggia nella mia biblioteca di autori calabresi e un suo interessante saggio critico e documentario: “La Calabria e un suo grande poeta: Lorenzo Calogero” edito dalla casa editrice cosentina Luigi Pellegrini. Inoltre, seguivo da tempo il suo impegno in ambito teatrale.
Proprio a causa (o per merito) di Lorenzo Calogero ebbi modo di conoscere personalmente Chirico ed il privilegio di lavorarci insieme.
“Senti Natale, avrei pensato di offrire una conversazione su Lorenzo Calogero ai miei studenti del Magistrale, che ne dici di venire a relazionare?
Il tono di voce di Carmelina Sicari non era – non è mai stato – quello di chi chiede, casomai quello di chi “conviene che sia opportuno” ed è difficile obiettare qualcosa. Avrei potuto obiettare per esempio che sul poeta melicucchese vi erano esperti molto più competenti e critici di professione che meglio di me avrebbero potuto esporre la poetica e la vita calogeriana ai ragazzi.
“Ma sarete tu e Rodolfo Chirico, vi aiuterete a vicenda a relazionare su Calogero ai ragazzi. Tu potresti raccontare la tua esperienza di vita a Melicuccà e nel Circolo Culturale intitolato al poeta!”
Accettai perché non si dice di no a Carmelina Sicari, che io considero tra le più ferrate intellettuali e letterate reggine di sempre e per quella opportunità di stare per un pomeriggio fianco a fianco con Rodolfo.
Per tutto il tempo dell’evento, Chirico mi lasciò la parte dell’ospite d’onore, con la bonarietà e umiltà che lo hanno sempre caratterizzato, intervenendo con decisione e competenza quando riteneva necessario arricchire il mio intervento con particolari e con note critiche. In mezzo a noi, Carmelina, come al solito, moderava gli interventi, stimolando gli studenti delle classi superiori del l’Istituto ad aprire con noi un dialogo o sottolineava con la solita arguzia letteraria certi passaggi che mettevano in luce aspetti particolari del “medicu pacciu” di Melicuccà.