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di Florinda Minniti                                                    

Il canto XXVI dell’Inferno, fra i più celebrati della Commedia, ha come protagonista il mitico eroe greco Ulisse, che narra in prima persona la sua ultima avventura. Per questo e per l’universale valenza simbolica del personaggio il XXVI dell’Inferno è definito per antonomasia il “canto di Ulisse”.

E’ necessario premettere che Dante non ebbe nozione diretta dei poemi omerici (la conoscenza del greco antico si era persa nel Medioevo tranne in un circoscritto territorio della Calabria, dove sopravviveva ad opera del monaco Barlaam di Seminara e del suo discepolo Leonzio Pilato) e probabilmente neanche dei tardi riassunti di essi nè delle elaborazioni romanzesche di ambiente neolatino (il poema francese di Benoit de Sainte Maure e la storia latina di Guido delle Colonne), dove la narrazione del nostos, ritorno, di Ulisse ad Itaca trovava ampio spazio.

Tuttavia non mancavano le fonti alle quali attingere: Virgilio (Aen.,III) e Stazio (Achill., I) fornivano la notizia degli inganni famosi e della personalità dello scelerum inventor; Ovidio (Metam.,XIV,154 e segg.) narrò dell’ultimo viaggio dei naviganti ormai vecchi e stanchi; Orazio (Ars poet., 141-142) parlò della vasta esperienza che Ulisse ebbe di paesi e uomini; infine Cicerone (De finibus, V, XVIII, 48-49; De off., III, 26) e Seneca (De const. sapientis, II, I) riferivano della sapientiae cupido e dell’innatus cognitionis amor dell’eroe più forti di ogni altro affetto, di ogni rischio e di ogni timore.

di Natale Pace

Quando pubblicò “Emigranti” nel 1928, Francesco Perri era già un personaggio nel mondo politico e letterario italiano.

Nel 1920 viveva a Pavia, studente di lettere in quell’ateneo. Tornò brevemente in Calabria, giusto per farsi arrestare perché affiancò i contadini del suo paese nella lotta per la concessione delle terre demaniali che i grandi proprietari avevano nel tempo usurpato:

“Poiché la mia licenza era breve ed a me premeva ottenere la concessione delle terre prima della mia partenza, pensai di rivolgermi al prefetto nella sua qualità di arbitro nella vertenza perché si addivenisse ad un accordo".

Assunto alle Poste nel biennio 1920-21 scrisse e pubblicò con lo pseudonimo di Paolo Albatrelli, il romanzo “I Conquistatori” nel quale descrisse la sanguinosa repressione fascista nella Lomellina e l’asservimento al regime di gran parte degli uomini di cultura. Il libro contiene anche un disperato richiamo alla politica perché diventi servizio e non servilismo.

Apriti cielo! Il regime fascista avviò una vera e propria caccia al libro che fu pomposamente bruciato in piazza. Lo si accusò di essere repubblicano e antifascista e fu licenziato dopo l’avvio di un provvedimento disciplinare. Ma il libro ormai aveva squarciato il velo e l’opinione pubblica se ne appropriò. Diventò in breve un best seller, letto e segretamente diffuso anche all’estero e gli diede fama e notorietà. Perri si trasferì a Milano dove vivrà fino alla Liberazione, attenuando le difficoltà economiche a seguito del licenziamento con collaborazioni alla casa editrice Utet scrivendo nella collana “La Scala d’oro” e componendo romanzi rosa e per i ragazzi.

Con “Emigranti” stranamente vinse il Premio Mondadori 1928. Stranamente, in considerazione della sua ormai notorietà come antifascista.

Di Anna Foti
Il calligrafo dei calligrafi fu definito dai suoi contemporanei, tra cui il tipografo francese Claude Garamond, un cognome noto agli scrittori moderni che non praticano con l’inchiostro e la carta e che invece ricorrono alla video scrittura, approdo finale della scrittura meccanica avviata con la cara macchina di scrivere; uno scrigno di stili che ispirò anche Stanley Morison, al quale si deve il font denominato Times New Roman e che lo definì il teorico della cancelleresca, scrittura ufficiale della cancelleria dello stato della Chiesa. La storia moderna della scrittura si nutre di quella degli antichi calligrafi, tipografi e copisti senza i quali essa non sarebbe quella che è. Tra questi anche il calligrafo, letterato e copista di Rossano, Giovanni Battista Palatino nato nel 1515 e morto a Napoli sessant’anni dopo.
Accanto al Time New Roman e al Garamond, prima citati e tra i font molto usati nella scrittura meccanica, anche il Palatino Linotype, erede del carattere tipografico Palatino appunto, portatore di un’impronta di Calabria nell’affascinante storia dell’arte della scrittura e della calligrafia.

di Natale Pace

La Giornata Mondiale della Poesia la festeggio il giorno dopo. E’ una piccola provocazione un po’ perché, vi confesso, questo uso (abuso) per cui ogni giorno è la Giornata Mondiale di qualche cosa per cui si mischia spesso il sacro con il profano, la giornata mondiale del prezzemolo con i milioni di morti per covid, o la poesia. La poesia l’ho celebrata ogni santo giorno da quando avevo quindici anni e passavo le mie ore a leggere i versi di Garcia Lorca e mi sollevavo un metro sopra terra. In questi cinquantasei anni l’ho onorata leggendo, leggendo, leggendo, ma anche scrivendo, componendo, all’inizio scopiazzando Lorca e Ungaretti, Calogero e Quasimodo, sempre per un primo bisogno corporale, confessando al foglio i turbamenti, gli aneliti, le vittorie e le sconfitte. Invece di urlare la gioia, invece di piangere scrivevo. Poi sopravvenne il bisogno di condividere con gli altri i versi copiosi e infantili: con la prima ragazza a sedici anni, poi fidanzata e sposa per la vita.

Oggi voglio celebrare la Poesia con un componimento straordinariamente evocativo di Mario Bagalà, palmese, poeta popolare nel senso più stretto del termine, chansonnier ironico, a tratti volutamente buffonesco, sfottente, ma avvincente coi suoi versi in dialetto, a mio parere troppo prematuramente scomparso quando ancora aveva tanto da dire per la cultura e non solo di Palmi.

Una poesia che mi trasporta indietro nel tempo, agli anni dell’infanzia che ho trascorsa tutta al rione Palumbo dove nacqui e vissi i miei primi dodici anni.