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di Natale Pace

Quando pubblicò “Emigranti” nel 1928, Francesco Perri era già un personaggio nel mondo politico e letterario italiano.

Nel 1920 viveva a Pavia, studente di lettere in quell’ateneo. Tornò brevemente in Calabria, giusto per farsi arrestare perché affiancò i contadini del suo paese nella lotta per la concessione delle terre demaniali che i grandi proprietari avevano nel tempo usurpato:

“Poiché la mia licenza era breve ed a me premeva ottenere la concessione delle terre prima della mia partenza, pensai di rivolgermi al prefetto nella sua qualità di arbitro nella vertenza perché si addivenisse ad un accordo".

Assunto alle Poste nel biennio 1920-21 scrisse e pubblicò con lo pseudonimo di Paolo Albatrelli, il romanzo “I Conquistatori” nel quale descrisse la sanguinosa repressione fascista nella Lomellina e l’asservimento al regime di gran parte degli uomini di cultura. Il libro contiene anche un disperato richiamo alla politica perché diventi servizio e non servilismo.

Apriti cielo! Il regime fascista avviò una vera e propria caccia al libro che fu pomposamente bruciato in piazza. Lo si accusò di essere repubblicano e antifascista e fu licenziato dopo l’avvio di un provvedimento disciplinare. Ma il libro ormai aveva squarciato il velo e l’opinione pubblica se ne appropriò. Diventò in breve un best seller, letto e segretamente diffuso anche all’estero e gli diede fama e notorietà. Perri si trasferì a Milano dove vivrà fino alla Liberazione, attenuando le difficoltà economiche a seguito del licenziamento con collaborazioni alla casa editrice Utet scrivendo nella collana “La Scala d’oro” e componendo romanzi rosa e per i ragazzi.

Con “Emigranti” stranamente vinse il Premio Mondadori 1928. Stranamente, in considerazione della sua ormai notorietà come antifascista.

Nelle prime pagine del romanzo racconta la sua esperienza di lotta coi contadini del 1918, anche se ne viene fuori una specie di razzia di ortaggi nelle terre dei “baroni” duramente repressa dai carabinieri con arresti in massa. Nelle pagine del libro si evince lo spirito rivendicativo degli umili e derelitti abitanti di Pandure, nome fittizio che celava la sua Careri, la voglia di riscatto che l’assegnazione delle terre avrebbe garantito, evitando l’emigrazione degli uomini verso l’America. Ma non c’è, per esempio, il pathos di Melissa raccontato anni dopo da Repaci, e le forze dell’ordine inviate dal Prefetto, messo sull’avviso dai “padroni”, beccano i poveri cristi con le tasche piene di peperoni e melanzane.

Rivelerà più tardi Perri, a proposito della nascita del romanzo:

"Mi reco alla casa editrice Mondadori, dove era impiegato un mio amico, per chiedergli se vi fosse possibilità di qualche modesto lavoro. Lavoro non credo rispose l'amico, ma tu perché non prendi parte al concorso bandito dall'Accademia Mondadori, per un romanzo. Il concorso scadeva il 31 dicembre e vi erano soltanto tre mesi, troppo pochi per scrivere un romanzo, e soprattutto per un concorso la cui commissione era costituita dal fior fiore della cultura italiana del tempo. Bisognava presentare un romanzo che facesse colpo, ma non disperai e mi posi al lavoro. Avevo scelto un soggetto senza ideologie, con un materiale che conoscevo da bambino e che avevo nel cuore".

Anche “Emigranti” subisce gli attacchi politici e letterari degli esponenti vicini al regime. Al Giornale d’Italia che aveva pubblicato una positiva recensione del libro venne rimproverato che avesse dato risalto a un ex funzionario delle Poste, che era stato licenziato per antifascismo, mentre alcune riviste, “Camicia Rossa” e “L’Italiano” lo additano al pubblico disprezzo in quanto autore de I Conquistatori.

In quanto repubblicano, subisce le critiche addirittura di Antonio Gramsci, il quale nei Quaderni scritti nel carcere di Turi in Puglia (XXIII – VI - $ 9), lo accomuna a Leonida Repaci in una durissima critica letteraria, inserendo entrambi tra i così detti “Nipotini di Padre Bresciani:

“…

Questo Perri non è poi Paolo Albatrelli dei Conquistatori? In ogni modo è da tener conto anche dei Conquistatori. Negli Emigranti il tratto più caratteristico è la rozzezza, ma non la rozzezza del principiante ingenuo che in tal caso potrebbe essere il grezzo non elaborato ma che lo può diventare: una rozzezza opaca, materiale, non da primitivo ma da rimbambito pretenzioso. Secondo il Perri il suo romanzo sarebbe «verista» ed egli sarebbe l’iniziatore di una specie di neorealismo; ma può oggi esistere un verismo non storicistico? Il verismo stesso del secolo XIX è stato in fondo una continuazione del vecchio romanzo storico nell’ambiente dello storicismo moderno. Negli Emigranti manca ogni accenno cronologico e si capisce. Vi sono due riferimenti generici: uno al fenomeno dell’emigrazione meridionale, che ha avuto un certo decorso storico e uno ai tentativi di invasione delle terre signorili «usurpate» al popolo che anche essi possono essere ricondotti a epoche ben determinate.

…”

Invece Emigranti di Francesco Perri è un libro straordinario per il periodo in cui è stato scritto, forse ancora più importante de I Conquistatori nello sviluppo artistico dello scrittore di Careri. Ed è davvero, nel suo esagerato verismo, anticipatore di quel neorealismo degli anni cinquanta del quale fu antesignano Fortunato Seminara, che scrisse Le Baracche nel 1934 e lo pubblicò nel 1942.

Gramsci scrive che Emigranti racconta la miseria del Sud, i patimenti, le umiliazioni della gente senza nulla, il tentativo di affrancarsi dal bisogno riappropriandosi delle terre demaniali usurpate dai latifondisti e al fallimento di tale tentativo, gli stenti e le sofferenze dell’emigrazione, i tanti morti a fronte dei pochi fortunati che riescono a trovare un lavoro, dignitoso rare volte.

Ma in Emigranti ho scoperto uno scrittore amante della sua terra, dei paesaggi aridi e brulli, ma incantati, del mare lontano che apre orizzonti.

Forse è la principale caratteristica del libro e della scrittura di Francesco Perri: la descrizione dei luoghi è contemplativa e allo stesso tempo pietosa e struggente. Ed è sempre presente nel libro, dove si alterna alle situazioni, ai dialoghi, alla tragicità degli eventi, l’epicità dei luoghi, la malinconia delle notti di luna.

Ricordate “Quando Dio creò la Calabria” di Leonida Repaci? Il ritmo descrittivo è quello, l’incantamento è uguale, c’è lo stesso amore e dolore narrativo. Ma Leonida scrisse il suo bellissimo pezzo trentasei anni dopo. Anche in questo amore descrittivo, in questa pietas per la terra, il cielo, il mare, gli alberi, le ricchezze, insomma, della Calabria, Perri è precursore.

Nel leggere le pagine di Emigranti la tristezza e il dolore spesso cedono alla malinconia struggente, all’amore per questa terra bellissima che di bellezza fa catarsi per risorgere.

“Ma non sai che questa è la più bella terra del mondo? Qui abbiamo tutto, ogni bene e ogni grazia di Dio. Cominciamo dalla primavera. In aprile hai la lattuga, in maggio la fava e il pisello, in giugno la ciliegia, la nespola, il fico fiore; hai anche l’orzo e il grano già maturo. In luglio hai lapera, la mela, la pesca e il ficodindia; in agosto  hai la mela granata e il fico, in settembre l’uva, la noce, la mela e la pera invernale. In ottobre comincia l’olivo, e sulle montagne hai la castagna. Si può dire che non vi è mese in cui il Signore non ci dia un frutto.

Dove lo trovi tu un paese come questo? Ricordatevi ragazzi miei, che la terra non è mai maledetta; la terra è di Dio….

La notte era dolcissima. La luna pendeva sugli orti e sulle case limpida, luminosa, come una grande patèna d’argento. Dalla campagna, insieme allo stridere delle cavallette, veniva un cantare malinconico di rospi, come ripercosso da un’eco multipla ai quattro angoli dell’orizzonte; una specie di voce astrale, che discendesse dai gorghi profondi del cielo. Sul mare che brulicava, tutto barbagli, si delineava, col suo profilo nero, il bel campanile di Bovalino ..

In quella terra così varia e pittoresca, piena di contrasti, apparentemente povera e intimamente ricca, saporosa, grave e soave, c’era una certa rispondenza con la vita e l’anima dei suoi abitanti. Anch’essa, l’anima calabrese, è piena di contrasti. Profondamente, e quasi direi violentemente buona, ha delle singole aridità. Tutti i buoni frutti del cuore, dalla ospitalità alla fedeltà, dalla devozione al sentimento della famiglia, dalla resistenza al dolore all’abnegazione, all’eroismo, in essa fioriscono spesso con un profumo di poesia soavissimo. Eppure la vita dei Calabresi è triste, dolorosa, angusta, come il paesaggio che, pur avendo tanti elementi di bellezza, non sembra bello, o la sua grazia vela di una profonda e dolorosa malinconia.”