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di Natale Pace

Tra i libri di Domenico Zappone della mia libreria, un posto certamente privilegiato lo occupa “Il mio amico Hemingway e altri racconti” pubblicato da Frama Sud nel 1984.  Si pavoneggia, in terza pagina, sotto il titolo una affettuosa dedica: “A Rosetta e Natale in ricordo di mio marito. Rosa Zappone”.

Se ne sta lì a ricordarmi la affettuosa, quasi filiale amicizia di cui mi ha onorato la bella Nanù (nomignolo affibbiatole scherzosamente da Mimmo, il quale la sfotteva dicendo che Rosa non gli piaceva come nome perché ricordava una cameriera – Rosina del Barbiere di Siviglia. In realtà la Rosina di Puccini non era cameriera ma figlioccia di don Bartolo).

Mi voleva bene Rosa Isola, in un periodo della sua vita difficile e tormentato, per la tragica fine del grande giornalista palmese, morto suicida (almeno questa è la tesi ufficiale) a Palmi il 6 novembre 1976. Ho provato in quegli anni a risollevarle il morale.

Si facevano certi pomeriggi di caffè e cultura più per celebrare e ricordare Zappone che per sua voglia (bisogno). Non ci sarò certamente riuscito; troppo feroce il dolore, atroce la convinzione che mai s’è tolta dalla testa di non essere riuscita a fermarlo, a distoglierlo, a rendersi conto del grado di insoddisfazione esistenziale in cui si dibatteva Mimmo, lei che eroicamente era riuscita nei primi anni ’50 a salvargli la vita, reperendo per le strade pericolose di Napoli la preziosa penicillina di cui aveva assolutamente bisogno per fermare l’infezione alla gamba ferita per una caduta banalissima. Zappone celebrò il coraggio stoico di Rosina nel celebre racconto lungo “La cinque fiale” pubblicato nel 1952, ma quella ferita lo rese claudicante per la vita e forse fu uno dei motivi della tragica morte.

Mi voleva bene Rosina. Ci si vedeva nella casa di Palmi al secondo piano di fronte alla Caserma dei Carabinieri, ci si ritrovava: c’era Benito Trimboli a spiegarci la sua filosofia, anch’egli cardoniano, reduce di una etica della vita, della pace, dell’amore che non c’era più, che non convinceva più nessuno. C’era Lina Tegano che a sorpresa si presentava con certi spettacolari quadri ricamati con pagliette dorate e arabescati. C’era, ma solo la domenica, Gilda Trisolini, che continuava le sue visite settimanali anche dopo la morte di Zappone, insieme al figlio Andrea e al bravo pittore reggino Esposito. E c’erano tanti altri che si alternavano, un po’ sì, in po’ no. Per tutti il buon caffè di macchinetta, fatto di miscela segreta che mai volle svelarci.

Mi voleva bene Rosina Isola Zappone e io ancora acerbo, ne sono certo, non riuscii a lenire il suo grande dispiacere, i suoi sensi di colpa.

“Il mio amico Heminway e altri racconti” lo ha curato Sharo Gambino, uno degli amici più vicini a Zappone, con il quale condivideva lunghi viaggi e memorabili mangiate, che ha collazionato i migliori racconti:

“Che la cara e gentile signora Rosi, sua moglie, e il figlio Elio, oggi mi abbiano scelto, fra i tanti che vi aspiravano, a curare l’edizione postuma dei racconti inediti e editi (ma sono in maggioranza i primi…”

Questo libro ha l’indubbio pregio di colmare, nei confronti dei lettori di Zappone, una lacuna grave per quegli anni, far conoscere Zappone come narratore, pur con tutte le riserve del caso, perché il palmese ha certamente un altro afflato lirico, altro grado di coinvolgimento, quando descrive i luoghi dei suoi viaggi come inviato di giornali di tiratura nazionale, ovvero quando, con ironia e burbera bonomia coinvolge i lettori con storie e tradizioni popolari, usanze e tipicità, fatti storici e luoghi sempre illustrati dalla sua enciclopedia conoscenza e col sorriso pietoso e nostalgico sulle labbra.

La narrazione di Zappone, esplicata in racconti brevi, salvo poche eccezioni, è fatta di quadretti di vita d’un tempo, un poco naif, molto autobiografici e forse per questo estremamente importanti per capire la vita di questo celebrato giornalista. Gambino nella presentazione al libro lo dice tutto questo e dice anche che:

“Chi oggi voglia aver disvelato il vero Zappone, legga la presente raccolta dei suoi racconti, nei quali è confermato che lo scrittore non sempre riesce a celare la verità su se stesso.”

La raccolta comprende anche il celebre “Le cinque fiale” e, naturalmente, il racconto che Gambino ha usato per dare il titolo al libro, sancendo di fatto un legame, un nesso tra Zappone e lo scrittore di Addio alle Armi e di Fiesta.

Zappone in “Il mio amico Hemingway” si immagina ricoverato e in pericolo di vita, e immagina che Hemingway lo vada a trovare: “Hemingway entrò in corsia con la sua andatura da vaquero e venne di filato al mio letto…”

Qualche tempo prima Zappone ha letto un celebre racconto di Heminway “Le nevi del Kilimangiaro” e in quelle storie raccontate si era tanto ritrovato, tanto gli era parso di leggere le sue tristi vicissitudini di malato.

Ammalato e visitatore si scambiano battute, ma sono i dialoghi del racconto di Hemingway, o di altri scritti dell’americano. Zappone, però, intanto ha tanta voglia di dirgliene quattro:

“… l’amarezza per la mia vita sbagliata, bruciata giorno dietro giorno senza mai un’ora piena, una povera vita anonima, insulsa, con mille propositi di fare questo e quest’altro, d’andare per il mondo, di cacciarmi in straordinarie avventure, per poi scrivere tanti libri di successo, avere lettori ad eserciti, essere fermato, additato, applaudito, seccato, importunato,, eccetera, per le strade, amato e odiato, ma non avevo saputo fare niente, m’ero pasciuto di fantasie velleitarie, avevo insomma fallito senza cominciare, ed ora era giunta la fine, non era possibile tornare daccapo, avrei dovuto pensarci prima  quand’era ancora possibile combinare qualcosa, ora invece era troppo tardi, irrimediabilmente tardi, avevo perduto il tram, non ce ne sarebbero stati altri.”

Ecco, a me pare che non ci voglia molta fantasia per immaginare che questo sia stato il vero dramma esistenziale di un intellettuale che avrebbe potuto anche vincerla la battaglia con la vita e con la morte, se solo l’avesse preso quel tram, se solo, avendo riconosciuto il mondo la sua grandezza di artista, egli avrebbe potuto di questo farsene una ragione per vivere, per continuare a vivere. Invece, forse, quando decise l’estremo passo, la scelta estrema, possiamo credere che gli siano venute in mente, lui che dell’avventuriero scrittore di Oak Park conosceva quasi tutto, al punto da assumerlo quasi a modello di vita, le parole pronunciate da Hemingway poco tempo prima di suicidarsi con un colpo di fucile in bocca:

“Morire è una cosa molto semplice. Ho guardato la morte e lo so davvero. Se avessi dovuto morire sarebbe stato molto facile. Proprio la cosa più facile che abbia mai fatto... E come è meglio morire nel periodo felice della giovinezza non ancora disillusa, andarsene in un bagliore di luce, che avere il corpo consunto e vecchio e le illusioni disperse.”