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di Natale Pace

La Giornata Mondiale della Poesia la festeggio il giorno dopo. E’ una piccola provocazione un po’ perché, vi confesso, questo uso (abuso) per cui ogni giorno è la Giornata Mondiale di qualche cosa per cui si mischia spesso il sacro con il profano, la giornata mondiale del prezzemolo con i milioni di morti per covid, o la poesia. La poesia l’ho celebrata ogni santo giorno da quando avevo quindici anni e passavo le mie ore a leggere i versi di Garcia Lorca e mi sollevavo un metro sopra terra. In questi cinquantasei anni l’ho onorata leggendo, leggendo, leggendo, ma anche scrivendo, componendo, all’inizio scopiazzando Lorca e Ungaretti, Calogero e Quasimodo, sempre per un primo bisogno corporale, confessando al foglio i turbamenti, gli aneliti, le vittorie e le sconfitte. Invece di urlare la gioia, invece di piangere scrivevo. Poi sopravvenne il bisogno di condividere con gli altri i versi copiosi e infantili: con la prima ragazza a sedici anni, poi fidanzata e sposa per la vita.

Oggi voglio celebrare la Poesia con un componimento straordinariamente evocativo di Mario Bagalà, palmese, poeta popolare nel senso più stretto del termine, chansonnier ironico, a tratti volutamente buffonesco, sfottente, ma avvincente coi suoi versi in dialetto, a mio parere troppo prematuramente scomparso quando ancora aveva tanto da dire per la cultura e non solo di Palmi.

Una poesia che mi trasporta indietro nel tempo, agli anni dell’infanzia che ho trascorsa tutta al rione Palumbo dove nacqui e vissi i miei primi dodici anni.

Bagalà con una verve straordinaria ritorna a quel tempo, ricordandoci i giochi semplici dei ragazzi di rione, oggi naturalmente soppiantati da elettronici marchingegni, spettacolari e costosi che avvincono nei tablet i ragazzi fin dalla prima infanzia estraniandoli dal mondo non solo degli adulti, ma soprattutto alienandoli dai coetanei. I giochi cantati da Mario Bagalà si svolgevano con materiale povero, un pezzo di legno per “u surici”, la parete di muro per “il battimuro”, le nocciole a Natale per “u casteddhu e un paddhu”, la trottola di legno con punta di ferro per buttare fuori dal cerchio le monetine e vincerle. A Natale s’incollavano su una tavola i tappi di bottiglia per farne strumento a percussione, come una barra di ferro che si batteva, e si andava per le case diel rione a suonare la novena di Natale. Si giocava al “fazzoletto” per indovinare il frutto che faceva il tale albero e se indovinavi rincorrevi gli altri picchiandoli col nodo del fazzoletto. 

Poesia popolare quella di Mario Bagalà, ma di alta liricità, usando termini dialettali arcaici, antichi, non tutti decifrabili e traducibili (qualcuno anche in questa lirica l’ho lasciato originale perché non ricordo il termine italiano).

Si giocava tutti insieme, giochi inventati con niente, ma lo stare insieme era già il gioco più importante; giornate intere per le strade del rione, fino  a sera, a rincorrere una “pianeta” aquilone, costruito con fogli di giornale e colla fatta di farina e acqua.

Di Mario Bagalà ho in libreria due volumi: Il primo “U chiantu d’Alaricu” con preziose illustrazioni di Maurizio Carnevali e una importante introduzione del prof. Luigi Lacquaniti il quale dedica a “M’arricordu quand’era figghiolu” alcune righe:

“Sono 35 versi sciolti, un poemetto, che rievoca un’intera vita dall’infanzia lucente e mitica alla maturità pensosa. Fa tanto bene allo spirito sentire parlare di un’età favolosa in cui si giocava giuochi scomparsi nel gorgo asfissiante della così detta civiltà moderna, del progresso, della tecnologia. Giochi scomparsi, che tornano eterni a c hi si avvicina con animo puro alla poesia. Ed allora avverrà che la magia dei versi farà zampillare nel fondo dell’anima la leggiadria di cose di niente, di cose di ragazzi. Possa la lettura di questi versi compiere il miracolo di vedere nell’apparire l’immagine di una fanciullezza lontana, anche se non vissuta, come salutare parvenza di un mondo tramontato ma che, con altre vesti, sarebbe desiderabile che ritornasse.”

L’altro è “Jettumi i luvari” nel quale una pagina con l’immagine della Guardiola alla Pietrosa di Leonida Repaci e due versi dedicati a ricordo del centenario della nascita: “… di ccà vardaru ll’occhi e lu so cori…/ e ccà la so meduddha fu a lu pensari!”. Nello stesso volume, tra le testimonianze, un saluto-giudizio di Repaci:

La tua musica, i tuoi versi “Jettumi parmisanu”Mario Bagalà, mi fanno ritornare alla Guardiola con animo propenso alla decisione finale di rimanervi per sempre al trapasso terreno. Grazie per la tua musica “U sonnu di lampari” colonna sonora nella trasmissione TV in mio onore”.

Allora rileggiamola insieme questa bella poesia popolare che ci fa tornare bambini per qualche minuto.  Grazie, Mario Bagalà!

 

M’ARRICORDU QUAND’ERA FIGGHIOLU

Di Mario Bagalà

M’arricordu quand’era figghiolu,

iva zzumpandu violu, violu;

ca iva jocandu, a singa a mmucciagghia,

a quattru e quattr’ottu,, ‘ndivina ‘ndinagghia;
 

M’arricordu, pensandu a chist’ura,

ca iva sbattendu nu sordu a li mura,

ca iva trovandu, limeddhi e buttuni,

nu jocu a lu mastru cu petri e mattuni.
 

Poi tempi d’estati, cogghiuti a roteddhu,

unu teniva na cima i cordeddha;

n’atru cchiù grandi diciva: “ndovina…

chi fruttu ti faci, sta pianta… và mina!
 

Chi tempi, chi jochi, chi modu i parrari,

all’Avi Maria, sentivi cantari…

patruni, veddhani, barberi e scarpari,

avianu atru pa mentgi i pensari;
 

m’arricordu, quand’era figghiolu,

ca iva zzumpandu, violu, violu;

ca iva jocandu, o surici a mazza,

fatti di lignu, ntò vicu e ntà chiazza.

M’arricordu, pensandu a chist’ura,

faciamu ‘ncircu ‘nta terra cchiù dura,

poi, ncorpu fittu… u palorgiu girava,

cu punti di ferru, i sordi i schiacciava!

Veniva Natali, ‘ncasteddhu i nuciddhi,

oh, gioia cuntenti, toccavamu i stiddhi…

tri quattru figghioli, landeddhi azzarinu,

la ninna ‘nte porti a lu nostru Bambinu.

Oggi, se jocu… non jocu a buttuni

a quattru e quattr’ottu ‘ndivina ‘ndinagghia,

jocu pe sordi, pensandu a famigghia,

pe figghi e muggheri pe cu s’arrisciscigghia.

Ma sempri a la menti mi torna ddhu jornu,

chi vitti finiri ddhi tempi ddhi jochi,

jochi di nenti, jochi i figghiolu,

chi iva zzumpandu, violu violu.

 

MI RICORDO QUAND’ERO RAGAZZO

Di Mario Bagalà

Mi ricordo quand’ero ragazzo,

andavo saltellando vicolo vicolo,

che andavo giocando alla “linea” a nascondino

a “quattro e quattr’otto, indovina, indovinagghia;

Mi ricordo, pensando a quest’ora,

che andavo battendo una moneta al muro

che andavo cercando limeddha e bottoni

un gioco al “mastro” con pietre e mattoni.

Poi in tempi d’estate, raccolti a ruota,

uno teneva una cima di corda,

un altro più adulto diceva: “indovina…

che frutto ti da questa pianta… vai picchia!

Che tempi, che giochi, che modi di dire,

all’Ave  Maria sentivi cantare…

padroni, contadini, barbieri e calzolai,

avevano altro per la testa da pensare.;

mi ricordo quand’ero ragazzo

che andavo saltellando vicolo vicolo;

che andavo giocando, al “surici a mazza,

fatti di legno, nel vicolo, in piazza.

Mi ricordo, pensando a quest’ora,

facevamo un cerchio nella terra più dura,

poi un colpo secco… la trottola girava,

con punta di ferro, le monete schiacciava!

Veniva Natale, un castello di nocciole,

oh, gioia contenti, toccavamo le stelle…

tre quattro ragazzi, tappi di bottiglia azzarinu,

la novena alle porte al nostro Bambino.

Oggi, se gioco… non gioco ai “bottoni”

a quattro e quattr’otto indovina indovinagghia

gioco per denaro pensando alla famiglia,

per i figli e la moglie per chi si sveglia.

Ma sempre alla mente mi torna quel giorno,

che vidi finire quei tempi quei giochi,

giochi di niente, giochi di ragazzo,

che andava saltellando vicolo vicolo.