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Di Vincenzo Filardo

  1. Condivido finalità ed approccio, pamphlet divulgativo dedicato ai ragazzi, del libro di Leporace sulla figura di Giacomo Mancini, un protagonista meridionale della politica e della promozione culturale del ‘900. A parte il Premio Sila penso alla sua spinta diretta e al suo contributo personale al grande tema del Riformismo italiano con l’occhio particolarmente attento alla soluzione della Questione Meridionale. Penso alla sua visione di uno Stato moderno regolatore del mercato con una presenza importante nell’economia e nei settori pubblici: una visione erosa progressivamente dal pesante incedere del liberalismo e dalla globalizzazione dei poteri finanziari.
  2. Per trasmettere esperienze del passato alle nuove generazioni occorre il linguaggio giusto, quello semplice, diretto, privo di gergalità politiciste, privo soprattutto di nostalgie e di parole senz’anima. E nel suo “Bignami” del romanzo di una vita, quella di Mancini, Paride Leporace usa la sua professionalità, il suo mestiere di giornalista e di comunicatore, sfugge al racconto agiografico, non si fa prendere dall’affetto e dalla stima che comunque nutre verso il suo personaggio, scrive con “occhio asciutto”. Un secolo di storia umana e politica in meno di cento pagine. Basta leggere l’indice del volumetto che inizia con il rapporto di Giacomo con suo padre Pietro, con la sua città, la sua famiglia di origine, aristocratica, Mancini- De Matera, in quel palazzo nel contro storico di Cosenza accanto al liceo Telesio. E che finisce con la sindacatura della sua città e l’abbraccio di Cosenza al suo funerale laico in cui parlano Emanuele Macaluso, comunista migliorista, riformatore moderato del PCI e Franco Piperno leader di Potere Operaio gruppo extraparlamentare dei famosi anni ’70: associati ambedue dal riconoscere in quella salma la dimensione politica ed umana di uno statista.
  3. Condivido anche l’altra finalità del libro: un contributo per riaprire una discussione sulla Calabria e sul Mezzogiorno. A noi serve però una discussione che ci consenta di guardare avanti. Per questo dovremmo cogliere e valorizzare i punti di forza che ci vengono dal passato per riannodarli, rinnovarli profondamente, valorizzarli. E per questo dovremmo evitare giudizi demolitivi, processi, semplificazioni schematiche su persone e su fatti.
  4. Allora vorrei fare all’autore tre domande che emergono dal suo racconto sulla vita di Mancini.

di Franco Costantino

INTRODUZIONE

Parto dalle conclusioni aperte del libro per condividerne la sostanza.

Il politico Mancini, nel corso della sua lunga militanza politica ha accumulato più meriti che colpe e il libro di Paride Leporace ha sicuramente il gran merito di restituire alla memoria, soprattutto dei giovani, nel ventennale della morte, le principali tappe  dell’azione politica e di governo di Giacomo Mancini ininterrottamente parlamentare, per 44 anni, da 1948 al 1992 e più volte ministro della Repubblica, oltreché segretario del Partito Socialista e Sindaco di Cosenza per ben 3 volte. Una volta da giovane nella prima Repubblica e 2 volte con l’elezione diretta nel 1993 e nel 1997, dopo di che anche il Sindaco del dopo Mancini è stata espressione della sua precisa volontà.

C’era bisogno di aggiungere una nuova ricostruzione della vicenda politica ed umana di un uomo politico su cui i giudizi sono stati spesso contrastanti?

Dopo aver letto il libro io penso proprio di si.

La partizione del libro è organizzata per capitoli che potrebbero essere valutati in piena autonomia ma che accostati l’uno all’altro consentono di leggere il quadro completo dell’intera esistenza di quello che è stato definito “Avvocato del SUD”

A me riesce meglio pensare alla figura di Mancini come politico di caratura nazionale che per quanto riguarda le politiche a favore del meridione è stato anche risolutivo ma molto condizionato in alcune scelte dal suo amore per il territorio di origine.

Gli studi di giurisprudenza ultimati a Torino dopo la maturità classica conseguita al liceo Telesio di Cosenza lo formano in ambiente  contestualmente Gramsciano, Azionista e Industriale.

di Renè Corona

Giorgos Seferis si chiedeva: ”Perché scriviamo dei versi?” e rispondeva  a se stesso sulla pagina del suo Diario “Sebbene siano cose segrete (per colui che le scrive) le crediamo più importanti di qualsiasi cosa. Questa necessità vitale.” (24 ottobre 1946)

Poi in un’altra pagina continua: “Ho finito di scrivere la poesia […] non so se è una bella poesia, so solo che è finita. Adesso la devo lasciare asciugare.” (31 ottobre 1946).

Aggiungerei: Una volta nella metropolitana di Parigi , prima di arrivare al binario, c’era un portillon, una porta di ferro (è strano il diminutivo, in realtà era proprio un portone pesante) che, un po’ prima dell’arrivo del convoglio, si chiudeva lentamente e quindi la gente cercava fino all’ultimo di intrufolarsi per non perdere il metrò.

Ecco “necessità” e stendere per far asciugare” e “portillon”.

Ancor prima di asciugarsi dall’inchiostro (inchiostro come lacrime?) le parole vogliono salire nel vagone e quindi spingono, spingono per tentare di starci dentro.

Ma anche l’altra immagine è interessante: il poeta come una lavandaia toglie il sovrappiù (e non è facile, le esclusioni sono tante, tagliare è un po’ come partire o come morire e scegliere è complicatissimo) e poi stende i panni.

di Natale Pace

Scrivendo di una precedente raccolta poetica, “Compitare nei cortili” ho definito Renè Corona un irruento costruttore di parole. Renè tra le parole è un acrobata, sospeso nelle altezze del trapezio della poesia e, come gli acrobati, egli ha un senso solo lassù. Sulla terraferma, lontano dalle sue parole egli non ha senso, non si realizza, sembra che non sappia parlare, come se gli mancasse qualcosa.

Se parli con lui, meglio se leggi i suoi versi, ti ritrovi per incanto tra le miscele di colori di Kandinskij, in un misterioso labirinto dentro il quale cominci tra un verso e l’altro a crogiolarti, a girovagare senza meta, ma ti ci trovi bene e non ti passa neppure per l’anticamera della testa di cercare la via di uscita.

Il nostro poeta è’ un francese importato in Italia o forse è meglio dire un calabrese nato per sbaglio a Parigi 69 anni fa. Vi è arrivato, in Calabria per lavoro a 35 anni come esperto linguistico alla Scuola Superiore per Mediatori Linguistici e non è andato più via. Si è stabilito a Bova Marina da dove fa il pendolare verso l’Università di Messina. Di Parigi gli resta un lontano parlare strascicato con la “evve” moscia (ma solo appena accennato) e una certa timidezza nel dialogo, quasi ritrosia, che, una parola sì e un’altra gliela devi strappare con le unghie, sembra chiederti scusa quasi.