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di Natale Pace

“… Mostra il non-sense cui gli uomini si condannano attraverso il proprio linguaggio vuoto, sciocco, o a volte mostruoso, e lo fa per scolpire un nuovo linguaggio, pregno, scandito, completamente vero, tutto in bilico nel nulla, però mai di quel nulla partecipe, impossibilitato a precipitarvi, acrobata sulla propria sottigliezza, sul patto che ha stabilito col lettore, con la letteratura, con la propria storia … le parole ci servono per costruirci, costruire a noi stessi, case: parole che corrodono…” (Marco Bruno – Ewa Lipska, la discreta amante delle parole – su Poesia n.349)

Per aprire la “mia” riflessione su René Corona (mia nel senso che a sbagliare si fa sempre in tempo e me ne assumo ogni relativa responsabilità), prendo a prestito il bellissimo studio di Marco Bruno sulla poesia di Ewa Lipska, polacca di Cracovia, pubblicato qualche mese fa dalla rivista Poesia.

Ma perché tale io vedo (e leggo) René Corona: un irruento costruttore di parole. René Corona è un acrobata che ha un senso solo lassù, sospeso nelle altezze; a vederlo sulla terraferma, come dice una famosa canzonetta, ti sembra un essere senza senso. A parlarci ti ritrovi dentro le forme amorfe, tra le miscele di colori di un quadro di Vasilij Vasil'evič Kandinskij, come in un labirinto dentro il quale ti crogioli, ci stai divinamente bene e non ti passa neppure per l’anticamera del cervello di cercare la via di uscita.

di Giuseppe Bova

Un giorno decise di sorprenderci tutti ed annunciò che sarebbe stato al cenacolo del Rhegium per parlare dell’acqua.

Aveva scritto diverse cartelle e qualche verso, un po’ come Josif Brodskji che, amando Venezia, mandò alle stampe per Adelphi una plaquette capolavoro dal titolo Fondamenta degli incurabili.

Anche Lui era così, sentiva il richiamo della foresta, amava stare con i poeti amici, era contento ascoltare e dire cose, voleva respirare la profonda corrente dell’anima che, quando agita emozioni o suggestioni, odora di un profumo divino.

Non era una presenza misteriosa, ma solare. Tutti avvertivano l’estensione della sua cultura e la consistenza umana dei suoi contenuti, perché nella sua dimensione creativa erano presenti le esperienze della guerra, le morti, i genocidi ma anche le sofferenze dei deportati, dei marginalizzati, degli ultimi.

Nulla poteva distrarlo dalla determinazione con cui si dedicava alle battaglie per l’affermazione dei diritti umani e per affrancare l’uomo dalla miseria e dalle dittature.

Era capace di volare alto come un’aquila sul mondo e di osservare con occhio critico le contraddizioni e il dolore.

Si sentiva impegnato contro la pena di morte e per il riscatto del Mezzogiorno evidenziando vicende che ritornavano dure alla nostra memoria come il caso di Paula Cooper, giovane negra, condannata a morire nel braccio di un carcere americano o le raccoglitrici di olive di Iatrinoli o i malati di silicosi delle campagne della Piana.

di Anna Foti

Viene viene la Befana
vien dai monti a notte fonda.
Come è stanca! La circonda
neve, gelo e tramontana.
Viene viene la Befana.
Ha le mani al petto in croce,
e la neve è il suo mantello
ed il gelo il suo pannello
ed il vento la sua voce.
Ha le mani al petto in croce.
E s’accosta piano piano
alla villa, al casolare,
a guardare, ad ascoltare
or più presso or più lontano.
Piano piano, piano piano.
Che c’è dentro questa villa?
uno stropiccìo leggiero.
Tutto è cheto, tutto è nero.
Un lumino passa e brilla.
Che c’è dentro questa villa?
Guarda e guarda…tre lettini
con tre bimbi a nanna, buoni.
Guarda e guarda…ai capitoni
c’è tre calze lunghe e fini.
Oh! tre calze e tre lettini.
Il lumino brilla e scende,
e ne scricchiolan le scale;
il lumino brilla e sale,
e ne palpitan le tende.
Chi mai sale? chi mai scende?
Co’ suoi doni mamma è scesa,
sale con il suo sorriso.
Il lumino le arde in viso
come lampada di chiesa.
Co’ suoi doni mamma è scesa.
La Befana alla finestra
sente e vede, e s’allontana.
Passa con la tramontana,
passa per la via maestra,
trema ogni uscio, ogni finestra.
E che c’è nel casolare?
Un sospiro lungo e fioco.
Qualche lucciola di fuoco
brilla ancor nel focolare.
Ma che c’è nel casolare?
Guarda e guarda… tre strapunti
con tre bimbi a nanna, buoni.
Tra la cenere e i carboni
c’è tre zoccoli consunti.
Oh! tre scarpe e tre strapunti…
E la mamma veglia e fila
sospirando e singhiozzando,
e rimira a quando a quando
oh! quei tre zoccoli in fila…
veglia e piange, piange e fila.
La Befana vede e sente;
fugge al monte, ch’è l’aurora.
Quella mamma piange ancora
su quei bimbi senza niente.
La Befana vede e sente.
La Befana sta sul monte.
Ciò che vede è ciò che vide:
c’è chi piange e c’è chi ride;
essa ha nuvoli alla fronte,
mentre sta sul bianco monte.

Circondata da neve, gelo e tramontana, come di questi tempi si presenta l'Etna al cospetto di Reggio Calabria, così il poeta romagnolo Giovanni Pascoli descrisse in questa lirica, che ha tutta la leggerezza e la profondità di una ninnananna, la generosa vecchietta che portaR doni ai bambini nel giorno della Epifania in cui i Re Magi raggiungono la Grotta per onorare la nascita di Gesù Bambino. Tornare piccini per rileggerla con la semplicità e la spontaneità necessarie è i doni più belli che tutti possiamo fare a noi stessi e a coloro che amiamo.

di Anna Foti

«In un mondo che immagina il Natale occasione per costosi regali o lauti banchetti, io continuo a viverlo con sentimenti assai diversi. Ostinatamente ritorno alla mia infanzia felice e ai canti notturni  della novena che rendeva l’attesa della venuta del  Messia carica di speranza e di gioia interiore. Nell’antica chiesa di Brancaleone Superiore al mattino non c’era un orario fisso. Il sagrestano quando aveva terminato il suo primo sonno, verso le tre o le quattro del mattino, invitava il popolo col tocco di tre campane che racchiudevano novecento anni di storia e facevano arrivare una voce imperiosa e tonante, nel silenzio della notte, ai paesi vicini, sorpresi ogni volta con un cuore nuovo. Dalle campagne, dalle frazioni vicine accorrevano pastori e contadini, signorotti e guardiani, vecchi e giovani e in un baleno la chiesa era strapiena di gente infreddolita e digiuna dalla mezzanotte per potersi accostare all’Eucarestia: allora anche l’acqua rompeva il digiuno. Una ciurma di bambini  sedeva intorno all’altare cinquecentesco inseguendo nei mosaici di marmi multicolori fantasmi e fantasie; la porticina in legno del Tabernacolo non ci stancavamo mai di guardarla: il Buon Pastore aveva sulle spalle un pecorella  stanca e spaurita e ci trasmetteva una dolcezza inesprimibile. Il parroco grecanico nella sua cadenza della Bovesia iniziava le suppliche a Gesù Bambino: ”Venite, Gesù Bambino, nell’anima mia e purgatela, nei pensieri miei e dirigeteli. Gesù Bambino, datemi le vostre sante virtù”. Una breve pausa e mia madre e la signorina Teresa intonavano subito “Quandu nostra Madonna caminava, o chi cori cuntentu chi ‘ndavia …”.

Il ritmo era quello di una nenia che serbava nella sua semplicità dialettale la storia viva e vivificante di un passato pregno di religiosità fedele ed autenticamente cristiana. Il coro si allargava e ci si sentiva in compagnia di quell’ “Angiolu che la ‘mbasciata si portau: stanotti s’avi a fari lu Messia”.