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Di Natale Pace

In una saletta di Palazzo Marignoli una sera del 1946, sulla soglia della nuova Italia democratica e libera, si svolse una riunione importante per la storia del Premio Viareggio e della cultura Italiana.

Il celebre Premio fondato da Leonida Repaci, Carlo Salsa e Alberto Colantuoni sulla spiaggia di Viareggio nel 1929 è stato presieduto dallo scrittore di Palmi solo per i primi anni. Quando il regime fascista si rese conto del clamore mediatico che il premio suscitava nell’opinione pubblica, se ne appropriò e a presiederlo fu addirittura il genero del Duce, Galeazzo Ciano, per altro vecchio amico di Repaci con il quale ebbe uno storico duello all'arma bianca.

Fino al 1939 il Premio Viareggio di fatto fu asservito agli scopi politici del regime.

L'entrata in guerra dell'Italia interruppe naturalmente gli eventi letterari e anche il Viareggio.

di Natale Pace

“Nella mia città ho cercato l’infinito attraverso la mia gente, i paesaggi del mare e della montagna; ho interloquito intensamente e vivacemente per creare qualcosa di più, qualcosa di migliore”

Leggo nella premessa del tuo recente “Politica e Società” e poi aggiungi: “Ecco perché ne ho scritto”

Amico mio, ti auguro di vivere almeno vent’anni più di me e siccome ho intenzione di campare ancora a lungo, ti assicuro che è un ottimo augurio, ma quando, non prima del 2060 Dio vorrà chiamarti a sé (le aspettative di vita stanno aumentando sai!), io consiglio a chi ci sopravviverà di scriverle sul tuo marmo queste poche parole, perché racchiudono la tua missione esistenziale e, volendo fare i conti, due più due, con eccezionali risultati in termini di contributo alla crescita  della tua Città e della nostra Regione.

Nell’eccezionale impegno come professionista e come uomo politico prima e successivamente, da oltre cinquant’anni, nel nostro Circolo Culturale Rhegium Julli, del quale ora reggi il timone, hai prodotto occasioni straordinarie di discussioni stimolanti, tali che mi portano a dire che se questa Città, questo territorio metropolitano, se questa regione, la punta del Paese Stivale da almeno un secolo e mezzo messo sotto i piedi dal Paese, hanno ancora una speranza, un miraggio di futuro civile per chi ci vive e per chi ci vivrà, in buona parte lo devono a te e a quanti, non molti, come te vi hanno dedicato ogni minuto delle proprie giornate.

Scrivo e mi viene in mente il tuo immenso amore per i giovani, la sfrenata volontà di creare condizioni di acculturamento, di conoscenza civile e sociale, specialmente nelle scuole.

di Benedetta Borrata

Melicuccà è di diritto tra i luoghi della poesia, dell’arte della scrittura, tra quei luoghi ritenuti importanti perché hanno dato i natali ad autori singolari e perché in qualche modo sono entrati a far parte delle loro stesse opere. Sono toponimi, nomi di luoghi che rimangono piccoli centri, ma dimore di fermenti culturali nel ricordo di quegli uomini speciali, legatissimi alla loro Calabria e che non hanno mai del tutto lasciato. Sono nati dunque binomi indissolubili, come Melicuccà e Lorenzo Calogero, Maropati e Fortunato Seminara, Bovalino e Mario Lacava e così via.

Si tratta di autori, poeti, che hanno faticato tanto perché venissero riconosciuti come tali e sicuramente, più di tutti, Lorenzo Calogero. Basti leggere le sue lettere, il fitto carteggio con Giulio Einaudi, con Alba de Céspedes, con Carlo Betocchi, per ricevere per lo più risposte negative, anche mortificanti. Si legge in una lettera di Giuseppe Tedeschi a Leonardo Sinisgalli: ”Sai, un poeta nel vero senso della parola. Ha avuto tanti guai, vive in un paese sperduto della Calabria, solo e abbandonato, nessuno lo conosce, io stesso l’ho scoperto per caso, vedi che può capitare in questo paese, se non si è nel giro, non si esiste… “(G. Tedeschi, Lorenzo Calogero, Parallelo 38, Reggio Calabria, 1996, p.15).

Ma Lorenzo Calogero fu inflessibile seguace del suo demone: la poesia.

Nel dialogo De finibus bonorum et malorum ( I confini del bene e del male), scritto nel 50 a. Cr., Cicerone riassume la saggezza classica in quattro precetti, tra i quali <sequi deum>; alla lettera significa <seguire dio>. Ma quale dio? E’ quel dio riferito alla sfera dell’interiorità, quel demone personale che, ad esempio, accompagna Socrate per tutta la sua vita; quindi, quel demone che è compagno di vita, investito di una missione speciale. Per Lorenzo Calogero è quella forza interiore che lo spinge a scrivere, a poetare, è un modo di essere, è il demone che tiene i fili della sua vita o della sua non vita, cioè del suo contrario, del negativo. 

di Dante Maffia

Ad ogni lettura la poesia di Lorenzo Calogero mostra una tessitura di echi che tra loro s’accavallano, s’intersecano, si fanno il controcanto. Eppure spesso non sono echi che vengono dalla memoria poetica, ma da una lontananza misteriosa che il poeta sembra avere intravisto e inseguito con una disperazione totale che l’ha spinto a credere di essere entrato nel cerchio magico, nel recinto del fuoco sacro.

Quando uscirono i due volumi di Lerici, il primo nel 1962, curato da Giuseppe Tedeschi (che poi ha anche scritto una monografia per “Parallelo 38”) e il secondo nel 1966, curato proprio da Roberto Lerici, furono tantissimi i critici  a occuparsi del poeta, ma con abbagli sorprendenti, con giudizi affrettati e spesso liquidandolo come un attardato ermetico. Lo stesso giudizio di Montale, insistito sul possesso del “demone dell’analogia” e “della similitudine” tendeva a porre Calogero nella scia di un solco risaputo e lo relegava tra coloro i quali approdano alla poesia senza  avere un rapporto diretto col proprio tempo.

Ora sappiamo tutti che leggere un poeta in questo modo è come ucciderlo, chiuderlo nel limite –chissà da chi deciso  - di un concetto di poesia che ha dell’aberrante. La poesia non è una conquista graduale e non ha uno sviluppo coerente e concatenato con il passato prossimo, né deve per forza avere le stimmate dell’attualità, e se Vigorelli disse che si trattava di “Un poeta orfico, che ha altezze degne di Novalis, di Nerval, di Rilke” e Jacobbi ribadì che Calogero “ a distanza di qualche decennio” sarebbe sembrato “ a tutti uno dei protagonisti più alti della vicenda espressiva che dura dal Carducci a noi”, qualche ragione ci doveva essere e non era certo una ragione “politica” o di convenienza legata al potere, perché Calogero era vissuto in disparte, lontano dall’editoria, rifiutato da tutti, e s’era lasciato alla fine morire per colpa di gente che non ne aveva compreso la sua portata, la sua forza straripante.

Del resto, perché meravigliarsi se ancora nel 1983 Calogero era sconosciuto perfino ai funzionari della Mondadori come Maurizio Cucchi che nel realizzare il Dizionario della poesia italiana lo ignorò completamente?