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di Benedetta Borrata

Melicuccà è di diritto tra i luoghi della poesia, dell’arte della scrittura, tra quei luoghi ritenuti importanti perché hanno dato i natali ad autori singolari e perché in qualche modo sono entrati a far parte delle loro stesse opere. Sono toponimi, nomi di luoghi che rimangono piccoli centri, ma dimore di fermenti culturali nel ricordo di quegli uomini speciali, legatissimi alla loro Calabria e che non hanno mai del tutto lasciato. Sono nati dunque binomi indissolubili, come Melicuccà e Lorenzo Calogero, Maropati e Fortunato Seminara, Bovalino e Mario Lacava e così via.

Si tratta di autori, poeti, che hanno faticato tanto perché venissero riconosciuti come tali e sicuramente, più di tutti, Lorenzo Calogero. Basti leggere le sue lettere, il fitto carteggio con Giulio Einaudi, con Alba de Céspedes, con Carlo Betocchi, per ricevere per lo più risposte negative, anche mortificanti. Si legge in una lettera di Giuseppe Tedeschi a Leonardo Sinisgalli: ”Sai, un poeta nel vero senso della parola. Ha avuto tanti guai, vive in un paese sperduto della Calabria, solo e abbandonato, nessuno lo conosce, io stesso l’ho scoperto per caso, vedi che può capitare in questo paese, se non si è nel giro, non si esiste… “(G. Tedeschi, Lorenzo Calogero, Parallelo 38, Reggio Calabria, 1996, p.15).

Ma Lorenzo Calogero fu inflessibile seguace del suo demone: la poesia.

Nel dialogo De finibus bonorum et malorum ( I confini del bene e del male), scritto nel 50 a. Cr., Cicerone riassume la saggezza classica in quattro precetti, tra i quali <sequi deum>; alla lettera significa <seguire dio>. Ma quale dio? E’ quel dio riferito alla sfera dell’interiorità, quel demone personale che, ad esempio, accompagna Socrate per tutta la sua vita; quindi, quel demone che è compagno di vita, investito di una missione speciale. Per Lorenzo Calogero è quella forza interiore che lo spinge a scrivere, a poetare, è un modo di essere, è il demone che tiene i fili della sua vita o della sua non vita, cioè del suo contrario, del negativo. 

di Dante Maffia

Ad ogni lettura la poesia di Lorenzo Calogero mostra una tessitura di echi che tra loro s’accavallano, s’intersecano, si fanno il controcanto. Eppure spesso non sono echi che vengono dalla memoria poetica, ma da una lontananza misteriosa che il poeta sembra avere intravisto e inseguito con una disperazione totale che l’ha spinto a credere di essere entrato nel cerchio magico, nel recinto del fuoco sacro.

Quando uscirono i due volumi di Lerici, il primo nel 1962, curato da Giuseppe Tedeschi (che poi ha anche scritto una monografia per “Parallelo 38”) e il secondo nel 1966, curato proprio da Roberto Lerici, furono tantissimi i critici  a occuparsi del poeta, ma con abbagli sorprendenti, con giudizi affrettati e spesso liquidandolo come un attardato ermetico. Lo stesso giudizio di Montale, insistito sul possesso del “demone dell’analogia” e “della similitudine” tendeva a porre Calogero nella scia di un solco risaputo e lo relegava tra coloro i quali approdano alla poesia senza  avere un rapporto diretto col proprio tempo.

Ora sappiamo tutti che leggere un poeta in questo modo è come ucciderlo, chiuderlo nel limite –chissà da chi deciso  - di un concetto di poesia che ha dell’aberrante. La poesia non è una conquista graduale e non ha uno sviluppo coerente e concatenato con il passato prossimo, né deve per forza avere le stimmate dell’attualità, e se Vigorelli disse che si trattava di “Un poeta orfico, che ha altezze degne di Novalis, di Nerval, di Rilke” e Jacobbi ribadì che Calogero “ a distanza di qualche decennio” sarebbe sembrato “ a tutti uno dei protagonisti più alti della vicenda espressiva che dura dal Carducci a noi”, qualche ragione ci doveva essere e non era certo una ragione “politica” o di convenienza legata al potere, perché Calogero era vissuto in disparte, lontano dall’editoria, rifiutato da tutti, e s’era lasciato alla fine morire per colpa di gente che non ne aveva compreso la sua portata, la sua forza straripante.

Del resto, perché meravigliarsi se ancora nel 1983 Calogero era sconosciuto perfino ai funzionari della Mondadori come Maurizio Cucchi che nel realizzare il Dizionario della poesia italiana lo ignorò completamente?

di Natale Pace

“La cura dello sguardo”, non è un libro di poesie. Non sono versi, non c’è rima, non ci sono strofe. Ma a leggere queste pagine, quelle che sembrano solo riflessioni, a volte diaristiche, a volte sociali, ti viene la stessa pudica riservatezza, la stessa impudica invadenza di quando leggi una poesia. Anni fa ebbi una personale corrispondenza con Enrica Bonaccorti che a un certo punto mi scrisse: “troppi sedicenti poeti sono convinti che per scrivere dei versi basta andare a capo ogni tanto…”

Allora, leggendo per esempio, a pag. 197 “Il sessantesimo anno” vi sembrerà di leggere una bellissima, tutta intima poesia, che è anche il riassunto di una vita, in cui il poeta Franco Arminio ha dimenticato di andare a capo ogni tanto. Invece potrete rendervi conto che lo scritto è un unico, lungo verso poetico, il cui ritmo viene scandito non dalla metrica, ma dalle parole. Il sessantesimo di Arminio è un anno Fuori Mano, Gigantesco, Grandioso, un anno Oceano, Prua, Bersaglio, “sarà un anno largo in ogni sua ora di ogni suo giorno.”

Ci sarà qualcosa in questo che non vi quadra, che non capite. Ma perché i poeti non vogliono essere capiti, interpretati, vogliono solo essere letti e stabilire con te che leggi il contatto, l’affinità, un passo lo fai tu, un passo lo fanno loro in quel venirsi incontro che in un altro unico verso, ma stavolta breve, a pag. 46, Franco descrive con una pennellata degna dei migliori impressionisti:

“A che ora è la solitudine? La solitudine è alle quattro del mattino. Veniamoci incontro, dice la notte al giorno. E’ il bel compromesso che chiamiamo alba.”

di Anna Foti

A quest'ora della notte,
di tutte le notti,
prendo carta e penna
per scalare la mia cima impossibile (...)

Inizia sulla scia di questi versi, affidati alla lettura del poeta Francesco Tassone, l'incontro dedicato all'opera Omnia di Giuseppe Bova, presidente del circolo culturale Rhegium Julii, dal titolo suggestivo "Ossigeno", edito di Iride del gruppo Rubbettino (2021). La raccolta racchiude oltre mezzo secolo di poesie nelle quale Pino Bova, già soprintendente del Teatro Francesco Cilea di Reggio Calabria e Presidente dell’Università per stranieri Dante Alighieri, ripercorre i versi la sua vita trascorsa a scrivere liriche dal 1966 al 2020. La raccolta, dedicata ai figli Claudio e Raffaele, con la prefazione del poeta Corrado Calabrò, comprende undici sillogi di cui quattro inedite "Un'altra libertà" (1999-2020), "Ossigeno" (2012-2013), "Sono come sono" (1998 ad oggi) e "Turno di notte". Queste ultime a coronamento di un cammino poetico già segnato da altre pubblicazioni: "Uomini sempre" (1977), "Diamoci la mano" (1966), "Dimensione uomo" (1984), "L'albero del pane" (1991), "Così tenero, così fuggitivo" (1999), "La parola esclusa" (2003), "Millennium coat" (2003).