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di Natale Pace

“La cura dello sguardo”, non è un libro di poesie. Non sono versi, non c’è rima, non ci sono strofe. Ma a leggere queste pagine, quelle che sembrano solo riflessioni, a volte diaristiche, a volte sociali, ti viene la stessa pudica riservatezza, la stessa impudica invadenza di quando leggi una poesia. Anni fa ebbi una personale corrispondenza con Enrica Bonaccorti che a un certo punto mi scrisse: “troppi sedicenti poeti sono convinti che per scrivere dei versi basta andare a capo ogni tanto…”

Allora, leggendo per esempio, a pag. 197 “Il sessantesimo anno” vi sembrerà di leggere una bellissima, tutta intima poesia, che è anche il riassunto di una vita, in cui il poeta Franco Arminio ha dimenticato di andare a capo ogni tanto. Invece potrete rendervi conto che lo scritto è un unico, lungo verso poetico, il cui ritmo viene scandito non dalla metrica, ma dalle parole. Il sessantesimo di Arminio è un anno Fuori Mano, Gigantesco, Grandioso, un anno Oceano, Prua, Bersaglio, “sarà un anno largo in ogni sua ora di ogni suo giorno.”

Ci sarà qualcosa in questo che non vi quadra, che non capite. Ma perché i poeti non vogliono essere capiti, interpretati, vogliono solo essere letti e stabilire con te che leggi il contatto, l’affinità, un passo lo fai tu, un passo lo fanno loro in quel venirsi incontro che in un altro unico verso, ma stavolta breve, a pag. 46, Franco descrive con una pennellata degna dei migliori impressionisti:

“A che ora è la solitudine? La solitudine è alle quattro del mattino. Veniamoci incontro, dice la notte al giorno. E’ il bel compromesso che chiamiamo alba.”

E dunque questo libro che pare un diario, che è scritto come se fosse una sequela di riflessioni sparigliate, è invece una raccolta di versi tra loro interconnessi, intrigati, scritti da chi sa fare poesia, da un poeta sensibile alle parole, alle loro rappresentazioni e ai ritmi che servono per dare musica alle parole stesse, per esprimere sentimenti e sensazioni, per provocarle.

Vi dico subito che raramente mi è capitato un poeta che si mette tanto a nudo, si espone, si crucifigge e ancor più rare volte mi è capitato di entrare in empatia con un autore come in queste pagine che ho letto come se leggessi una raccolta di poesie, che non sono poesia, ma ci rassomigliano tanto.

Franco Arminio è poeta, anzitutto e non ce la fa proprio a camuffarsi nella narrativa, nella saggistica; scriva pure l’elenco della spesa per il supermercato, lo farà con i ritmi della poesia, con l’intento ultimo di suscitare partecipazione, simbiosi.

Allora lo tratto da poeta Arminio e mi accingo a leggere “La cura dello sguardo” con le aspettative che egli stesso suggerisce. Infatti, alla fine della prima e della seconda lettura, chiudo il libro e lo ripasso mentalmente, ripasso le tante emozioni che i suoi versi hanno suscitato in me, le luci che hanno acceso, le tenebre in cui mi hanno sprofondato,  chiedendomi se io e Franco ci siamo venuti incontro, se cioè quel che lui ha scritto e quel che io ho letto hanno infine trovato il punto di contatto, l’alba che serve per spalancare il giorno, per cui il mio spirito e il suo si sono coniugati e se un vincolo incancellabile ora ci unisce.

Tutto questo, caro Franco, dal mio punto di vista di lettore, in una esaltazione dell’individualismo esistenziale che, se vogliamo, mi sembra lo specchio di questi tempi di terzo millennio che trova l’uomo chiuso in sé stesso, collegato al mondo degli altri solo attraverso realtà virtuali, che si esalta soltanto nel suo spazio intimo, nel rapporto adonistico con il proprio corpo, il proprio pensiero.

Ma dal tuo punto di vista, quello del poeta, Franco, quel venirsi incontro, quel punto d’alba con il lettore, lo cerchi, e cosa ti comporta: senso di difficoltà, spoliazione, arricchimento? Cosa?