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di Dante Maffia

Ad ogni lettura la poesia di Lorenzo Calogero mostra una tessitura di echi che tra loro s’accavallano, s’intersecano, si fanno il controcanto. Eppure spesso non sono echi che vengono dalla memoria poetica, ma da una lontananza misteriosa che il poeta sembra avere intravisto e inseguito con una disperazione totale che l’ha spinto a credere di essere entrato nel cerchio magico, nel recinto del fuoco sacro.

Quando uscirono i due volumi di Lerici, il primo nel 1962, curato da Giuseppe Tedeschi (che poi ha anche scritto una monografia per “Parallelo 38”) e il secondo nel 1966, curato proprio da Roberto Lerici, furono tantissimi i critici  a occuparsi del poeta, ma con abbagli sorprendenti, con giudizi affrettati e spesso liquidandolo come un attardato ermetico. Lo stesso giudizio di Montale, insistito sul possesso del “demone dell’analogia” e “della similitudine” tendeva a porre Calogero nella scia di un solco risaputo e lo relegava tra coloro i quali approdano alla poesia senza  avere un rapporto diretto col proprio tempo.

Ora sappiamo tutti che leggere un poeta in questo modo è come ucciderlo, chiuderlo nel limite –chissà da chi deciso  - di un concetto di poesia che ha dell’aberrante. La poesia non è una conquista graduale e non ha uno sviluppo coerente e concatenato con il passato prossimo, né deve per forza avere le stimmate dell’attualità, e se Vigorelli disse che si trattava di “Un poeta orfico, che ha altezze degne di Novalis, di Nerval, di Rilke” e Jacobbi ribadì che Calogero “ a distanza di qualche decennio” sarebbe sembrato “ a tutti uno dei protagonisti più alti della vicenda espressiva che dura dal Carducci a noi”, qualche ragione ci doveva essere e non era certo una ragione “politica” o di convenienza legata al potere, perché Calogero era vissuto in disparte, lontano dall’editoria, rifiutato da tutti, e s’era lasciato alla fine morire per colpa di gente che non ne aveva compreso la sua portata, la sua forza straripante.

Del resto, perché meravigliarsi se ancora nel 1983 Calogero era sconosciuto perfino ai funzionari della Mondadori come Maurizio Cucchi che nel realizzare il Dizionario della poesia italiana lo ignorò completamente?

Il caso Calogero comunque valicò in fretta i confini  e la sua poesia trovò accoglienza a Zagabria, a Francoforte, a Stoccolma, a Grenoble, ad Amburgo, a Londra suscitando un grande interesse. Ma ho l’impressione che ancora non sia stata valutata nella sua portata reale: centinaia di quaderni attendono d’essere studiati e portati alla conoscenza dei lettori e si tratta di pagine preziose, fiorite sull’onda di una piena che davvero conferma l’affermazione di quello che è uno dei suoi versi più belli: “I detriti potranno fare / povere cose miracolose”.

So delle intenzioni di Vittorio Sereni di fare una scelta delle poesie di Calogero per Lo Specchio, idea ripresa anche da Giovanni Raboni, ma poi non accadde nulla: i misteri dell’editoria sono talmente visibili che alla fine riescono insondabili. Per fare qualche esempio, sono usciti ultimamente gli Oscar di Zeichen, della Lamarque, le opere di Sanguineti e della Insana, ma non è reperibile una sola pagina di Calogero.

La sua produzione poetica (noi siamo a conoscenza soltanto di circa mille pagine) è travolgente: le sue pagine sembrano essere degli accumuli di fuochi d’artificio che si aprono a ripetizione, senza sosta, senza mai una pausa che consenta di fermarsi su una immagine, su un pensiero, su una nota. Ciò dà l’impressione che sia un ribollire indistinto di annotazioni metafisiche, di abbacinamenti, di metafore che s’inseguono forsennatamente senza sapere a che cosa tendono. In realtà Calogero viveva dentro l’ossessione della morte e sentiva con scossoni prepotenti tutto il ludibrio della perdita. Centinaia di suoi versi tentano disperatamente di fermare il tempo, di arrotolarlo su un fiore, nel rosso di un tramonto, nel ritmo di un ricordo. La inesorabilità con cui le cose spariscono lo rese sempre più chiuso nel suo delirio che combatteva contro l’orrore del nulla. L’amore poteva essere l’unico momentaneo rimedio, ma aveva dalla sua parte la corruzione dell’umano che non si sottoponeva alla immensità e all’infinito. Le leggi del quotidiano sovrastavano e Calogero gridava “E’ la verità. Perennemente / si riaccende. Umida riaffiora umile / e risponde, perché io tergiverso sempre / e mai più da nessuna parte / come quando da assiduo sogno / mi sveglio”.

Nella parola di Calogero c’è un dolore sordo, un’ansia mal repressa, un accumulo di risonanze che non riesce a disperdersi in canto e così s’addensa il suono in una montagna sedimentata da paure e da angosce, da gemiti, da speranze subito uccise, da rigurgiti di promesse ormai disperse nella fatuità di un sogno “assiduo”.

Si è anche detto spesso che a Calogero mancasse una solida cultura letteraria. Ritengo che davvero bisognerebbe smetterla di appoggiarsi sui luoghi comuni per valutare la poesia. E indagare i testi, anzi fare domande ai testi, chiedere loro che cosa realmente vogliono dire. Perché valutare in base ai libri trovati dentro casa? Forse che non ci sono altre maniere per leggere? Ma a parte ciò, l’atteggiamento di molti è stato irriverente  e superficiale. Ha interessato più il caso e non la sostanza della sua poesia. Avvenne anche per Torquato Tasso e per Dino Campana, per fermarmi all’Italia, e stava per avvenire anche per Maria Marchesi se lei stessa non avesse provveduto a smorzare la morbosità dell’interesse per i suoi guai personali. I giornalisti hanno fame di cose sensazionali e sono per lo più convinti che il sensazionale, quello vero e autentico, in poesia non esista. Se fossero andati a leggere i due volumi di Calogero, e poi altri testi usciti qua e là, si sarebbero resi conto che siamo dinanzi a un poeta sconfinato, a una voce non catalogabile coi soliti metri. Certo, riferimenti se ne possono fare a iosa, andare a ricercare fattori comuni con Stefan Gorge, Trakl, Cvetaeva, Plath, ma si tratta sempre di accomunamenti più o meno tematici che dicono poco o niente. In Calogero lo tsunami è una presenza costante, sradica  i luoghi comuni, esalta le imprecisabili sfumature, esce dalle rotte conosciute e suggerisce accensioni semantiche imprevedibili e davvero colme di brividi. In nessun verso di Calogero c’è mai nulla, come dire?, di telefonato, non c’è mai un’espressione che si concluda con la consuetudine. E non perché egli di proposito si sia posto questo obiettivo, ma soltanto perché il dettato lo spinge a visitare luoghi sconosciuti della mente, del cuore. La sua parola è eretica in senso pieno, non riconosce limiti, non riconosce istituzionalità, non rinvia a niente. Nasce e nel mentre nasce si dà un  significato, una dimensione inedita, riavvia una grammatica e una sintassi e propone un significato. Ma basta uno squilibrio di ritmo per spostare l’asse già raggiunto, per uscire dalla codificazione che si stava preparando.

Mi viene in mente un’affermazione di Binni. Diceva che la critica non può avere un metodo entro cui far nascere i suoi giudizi perché dovendosi applicare alla poesia non può esistere prima. Sarà la poesia, se è tale, a imporre come farsi leggere, come affacciarsi e farsi riconoscere. Certo è un azzardo una simile affermazione, ma la poesia, essendo creazione pura, cioè cosa che nasce dal niente, come può stare nelle regole già codificate?

E Calogero infatti sbaraglia e frastorna e alla base del suo ininterrotto fiume c’è un dato che oserei chiamare ideologico: fede assoluta nell’incanto del verbo che deve squarciare i veli, e pur sapendo che si rinnoveranno attimo dopo attimo, non bisognerà abbandonare la sfida.

Perché quella di Calogero è una vera e propria sfida, un duello contro la morte, contro il silenzio, contro l’effimero, contro la banalità, contro la mediocrità, contro l’indecenza dell’ovvio:”Molte volte ho visto / non veduta, cambiata in due la tua sera: // Non domandare del lento discendere / tuo a settembre. Questa stella avvizziva / in fondo al pozzo, e la tua lugubre / contesa era distesa. // Ma non dirmi più che hai / e se marzo è così bigio in fondo al pozzo”.

A dare uno sguardo a queste nuove briciole (anche se sono datate parte 1936 e parte 1957 ), ci rendiamo conto che Calogero aveva piena consapevolezza del suo lavoro.

Ho avuto l’occasione di dare uno sguardo a sei quaderni di appunti di estetica, di pensieri sull’arte. Ebbene, non sono per nulla un rimuginare appena sul proprio modo di fare (anche se da quello naturalmente parte), ma osservazioni sul senso della poesia, sulla sua funzione. Certo, non hanno nulla di metodologicamente organizzato, ma non credo che neppure i pensieri leopardiani abbiano questa peculiarità; se l’avessero perderemmo uno dei motivi di lettura. Non voglio rifarmi in nessun modo alle affermazioni che Quasimodo ha fatto nel Discorso sulla poesia, ma è certo che una qualsiasi rigidità sciuperebbe la freschezza sorgiva della poesia di Calogero se fosse imbrigliata in enunciati categorici. Neppure Campanella, nel fare versi, restò fedele agli assunti e alle tesi filosofiche da lui propugnate. E quando vi restò gli esiti furono inadeguati, così come è accaduto anche a Manzoni.

Non so se considerare Struttura delle mie poesie un poemetto inframmezzato da osservazioni estetiche. Calogero, all’epoca, ancora non era entrato nel tunnel magmatico dell’imponderabile, non si era schiusa per lui la stagione dei palpiti della natura e dei lieviti che scaturivano dai richiami dei suoi modelli che secondo il mio parere furono all’inizio Tasso e Foscolo. Infatti serpeggia, nelle sue prime opere, una malinconia insonne e accesa che sembra il delirare e il farneticare del sorrentino, ma anche una compostezza espressiva che ha il piglio e la fede dello zantiota. Ma rapidamente ne avverte il peso da cui vuole liberarsi e arrivare ad esprimersi in un rutilante azzardo che deve scomporre la melodia in singhiozzi rotti, in una sorta di filastrocca fiabesca che sappia contemperare la dolcezza e la fluidità del popolare e la scabrosità del vero a tutti i costi. Ma anche così avverte di non trovare ascolto, sente la sordità degli altri esseri. Perciò abbandona la compostezza e adopera la parola come stiletto che deve offendere l’usualità, cancellare qualsiasi suono che abbia attinenza col passato. Operazione non facile, perché tutto sembra trascinarsi appresso strascichi ineludibili, cadenze ingannevoli.

Calogero sentiva che era arrivato il tempo di togliere la muffa, di abbandonare la Calabria dei primati e di mettersi al passo con l’Europa. Non come progetto esteriore, ma come rincorsa verso una sensibilità che sapesse accertare i dati della storia e portarli nella storia personale. Un procedimento alla rovescia, che quando riesce trova accordi magistrali ci regala discese repentine nel mistero, e quando non riesce (e accade, anche se non spesso), deraglia in scompostezze che arrancano verso tentativi e approssimazioni prive di reale scatto poetico. Infatti non è tutto oro quel che luce; spesso si avverte che egli ha forzato la mano, che ha distorto il dato di partenza per costringerlo a un suo volere esterno. Sottolineo questo dato per evitare di incorrere in un altro errore che accompagna la poesia di Calogero: sarebbe un flusso magmatico buttato fuori inconsapevolmente, in una sorta di delirante vociare. Non è così; egli si abbandona al suo estro senza mai uscire da una forma di “controllo” razionale. Fa scorrere immagini, idee, suoni furiosamente, intensamente, senza inceppi, senza riserve mentali, ma non abbandona mai a sé stesso il sentimento della poesia, inseguendo l’alitare di ciò che dice come se fosse una comunione infinita. Insomma, sentiamo l’abbraccio immenso del poeta che ci accompagna nei nuovi gironi infernali della sua anima, da cui non riusciamo a ritrarci, perché impastati di cielo e di terra, perché incatenati agli orizzonti disfatti e alle albe tradite. Ci fa complici.

Questi inediti mostrano con evidenza che Calogero oscillava tra il desiderio di uscire dal frammento e legarlo a una decisa struttura organizzata a fiato lungo e di entrare in una dimensione ampia che potesse contemperare vecchio e nuovo. Non c’è in lui, all’inizio, la necessità di rompere con la tradizione, dare un taglio netto. Anzi sembra che si voglia discostare dai nomi imperanti ignorandoli, anziché respingendoli. Ecco perché li scavalca – parlo di Carducci, Pascoli e D’Annunzio -  e si lega di più a certi scapigliati come Dossi, Tarchetti, Boito, Praga. Ma anche la lettura di Lorenzo Stecchetti deve averlo suggestionato. Appaiono infatti, qua e là, barbagli di un modo particolare di descrivere gli incontri con la donna che sono tipici di Postuma.

Ma un ritratto completo di Calogero aspetta d’essere fatto con serietà. Il mio scritto è fatto da una serie di impressioni e di intuizioni che vogliono riaccendere l’interesse per un poeta che non può né deve restare relegato ai capricci dei critici che continuano a ripetere ciò che è stato detto sul poeta senza verificarne l’esattezza. Certo non è fatica facile affrontarlo, non dico nella marea degli inediti che prima o poi mi auguro siano editi, ma neanche nelle pagine già pubblicate. La poesia di Calogero si presenta in modo assai folle: ad ogni lettura è come se si rigenerasse e prendesse altre sembianze da quelle che aveva. Il suono non muta, non muta la cadenza, ma i versi si spogliano ogni volta in maniera diversa, e se prima hanno ammiccato, è capace che dopo ridano sguaiatamente, o si carichino di una luttuosità arida  e sorda. Strano fenomeno, in effetti simile a quello che si subisce leggendo le Rime del Tasso. Si sente nell’aria come un giudizio sospeso, come un invito negato, una fuga che si fermerà sull’orlo del precipizio.

Una poesia così come può essere definita? Neoromantica, neo simbolista, neometafisica, neoermetica? Ma poi, è proprio necessario definirla? Non possiamo semplicemente domandarle di accompagnarci nel suo percorso aprendoci spiragli che portano nei meandri oscuri dell’essere? Non possiamo domandarle soltanto di essere, com’è, sé stessa, nella multiformità di una semantica assetata di bellezza fino allo struggimento?

Lorenzo Calogero è il poeta che ha saputo trovare la formula magica dell’essere nell’assenza dell’essere. Un modo incantevole di riconoscere la vita nella sua ricchezza e nella sua straordinarietà, ma anche un modo acuto e inesorabilmente diabolico di rubare al paradiso l’armonia per portarla nell’inferno: “Se certa speranza era di vivere un poco, / incerto era il modo all’esterno / che ricorda per giuoco un senso / che era vero senso inumidito di vita”.