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di Natale Pace

Ho conosciuto Rodolfo Chirico il 5 ottobre 2005 a Reggio Calabria all’Istituto Magistrale “T. Gullì”. Ovviamente sarebbe più corretto dire “ho incontrato”, perché per conoscerlo, già conoscevo Chirico avendo letto le sue più belle poesie in “Io nasco disobbediente” edizione del 1992 di Forum / Quinta Generazione, volume che si pavoneggia nella mia biblioteca di autori calabresi e un suo interessante saggio critico e documentario: “La Calabria e un suo grande poeta: Lorenzo Calogero” edito dalla casa editrice cosentina Luigi Pellegrini. Inoltre, seguivo da tempo il suo impegno in ambito teatrale.

Proprio a causa (o per merito) di Lorenzo Calogero ebbi modo di conoscere personalmente Chirico ed il privilegio di lavorarci insieme.

Senti Natale, avrei pensato di offrire una conversazione su Lorenzo Calogero ai miei studenti del Magistrale, che ne dici di venire a relazionare?

Il tono di voce di Carmelina Sicari non era – non è mai stato – quello di chi chiede, casomai quello di chi “conviene che sia opportuno” ed è difficile obiettare qualcosa. Avrei potuto obiettare per esempio che sul poeta melicucchese vi erano esperti molto più competenti e critici di professione che meglio di me avrebbero potuto esporre la poetica e la vita calogeriana ai ragazzi.

Ma sarete tu e Rodolfo Chirico, vi aiuterete a vicenda a relazionare su Calogero ai ragazzi. Tu potresti raccontare la tua esperienza di vita a Melicuccà e nel Circolo Culturale intitolato al poeta!”

Accettai perché non si dice di no a Carmelina Sicari, che io considero tra le più ferrate intellettuali e letterate reggine di sempre e per quella opportunità di stare per un pomeriggio fianco a fianco con Rodolfo.

Per tutto il tempo dell’evento, Chirico mi lasciò la parte dell’ospite d’onore, con la bonarietà e umiltà che lo hanno sempre caratterizzato, intervenendo con decisione e competenza quando riteneva necessario arricchire il mio intervento con particolari e con note critiche. In mezzo a noi, Carmelina, come al solito, moderava gli interventi, stimolando gli studenti delle classi superiori del l’Istituto ad aprire con noi un dialogo o sottolineava con la solita arguzia letteraria certi passaggi che mettevano in luce aspetti particolari del “medicu pacciu” di Melicuccà.

di Anna Foti

Una riflessione sul dono di Gesù che, facendosi Uomo, ha scelto la povertà di una grotta per nascere e una famiglia umile per crescere. Una storia universale soprattutto in quel Sud Italia che nel volume "Il Natale in Calabria", dato alle stampe nel 2006 con i caratteri della casa editrice vibonese Qualecultura nella collana Granelli di Sapienza, Saverio Strati descrive come scrigno di tradizioni da tramandare, come luogo in cui il Natale si riconosce universalmente nel Presepe che i ricchi fanno a casa e che i contadini ammirano dopo aver fatto il pellegrinaggio fino alla chiesa. Tra i brani da lui scritti e pubblicati su ‘Le vie d’Italia’, rivista mensile illustrata di geografia, viaggi, fotografia che il Touring Club Italiano curò dal 1917 al 1968, nel 1961 Strati propose anche il seguente, antesignano di quella sarebbe diventata una fiaba moderna, capace di emozionare e tramandare della Calabria la bellezza e l'intensità emotiva.

«Per un ragazzo del nord il Natale corrisponde certamente a vetrine illuminate e zeppe di giocattoli e di robe di ogni genere, all’albero dove sono appesi dei regali; e forse non avverte la preoccupa­zione dei genitori per la mancanza di soldi o di lavoro o addirittura del pane quotidiano. Per un ragazzo del sud, al contrario, il Natale prende un altro aspetto, gli si presenta con altra faccia. C’è il presepe, che ripete pari pari la storia della nascita del figlio di Dio. Ma il presepe in casa è segno di ricchezza: cioè vien fatto nelle case dei ricchi. Nelle case dei contadini o degli operai e artigiani non si fa il presepe. Lo si prepara in chiesa. Ed è opera popolare, costruito, messo su dall’abilità e spesso dalla genialità dei più bravi ragazzi; e concesso al godimento dei poveri attraverso la Chiesa, sempre mediatrice tra Dio e popolo. Certo anche Gesù Bambino sarà andato a piedi nudi per le vie del suo paese, e anche lui avrà avuto i calzoni a brandelli, visto che anche lui era figlio di gente povera. Suo padre era un povero falegname. Cosa poteva guadagnare? Ma certo Gesù era scalzo perché voleva».

Saverio Strati, lo scrittore calabrese tra i più grandi del Novecento nel 2014 spentosi a Scandicci, nell'attuale città metropolitana di Firenze, dove viveva da cinquanta anni, da tempo conduceva una vita molto ritirata in quella casa sul viale silenzioso della cittadina del Fiorentino che lo aveva accolto nel 1964. Con voce fioca si era detto stanco al citofono quando, non riuscendo ad annunciare il mio arrivo, avevo percorso quel viale nel 2012 e avevo suonato al suo citofono, sperando di poterlo incontrare e conoscere.

Nato a Sant’Agata del Bianco, allora provincia e oggi città metropolitana di Reggio Calabria, Saverio Strati, pur avendo dovuto lasciare la scuola in tempo di guerra per aiutare il padre muratore, non abbandonò mai la passione per la lettura. Finita la guerra, grazie all'aiuto finanziario di uno zio che risiedeva negli Stati Uniti, riprese gli studi.  

Primo calabrese insignito del premio Campiello nel 1977 con “Il Selvaggio di Santa Venere”, Saverio Strati non vide in vita pienamente riconosciuti i meriti che la sua penna avrebbe meritato, in Italia come anche in Calabria.

Giuseppe Bova

di Natale Pace

Il grande poeta irlandese Seamus Heaney, insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1995, massimo rappresentante contemporaneo del rinascimento poetico irlandese, ha scritto a Peppe Bova:

“I like the sense of plentiful in your poems, the combination of natural imagery and trascendent impuls”

(Apprezzo il senso di notevole ispirazione delle tue poesie, la combinazione d’immaginario naturale e impulso trascendente) 

Non vedevo Peppe Bova praticamente da una vita.

Ci siamo rivisti, dopo una vita nella quale lui è stato poeta prestato alla professione di responsabile dell’Ufficio della Motorizzazione Civile reggina e alla politica come candidato al Parlamento Europeo nel 2009, consigliere regionale e due volte assessore al Comune di Reggio Calabria dal 1980 al 1989; poi tutto dedito alla Cultura e al Sociale come Presidente della Società Dante Alighieri di Reggio, Premio alla Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 1974. In quel primo periodo della nostra vita, io poeta (dicono!!) prestato per decenni all’impegno sindacale e per cinque a quello di assessore comunale a Palmi.

Due poeti in tutt’altre faccende affaccendati!

Ci siamo ritrovati oggi: lui, sempre più impegnato Presidente del Circolo Culturale Rhegium Julii, io, lasciata la Cisl che mi ha preso per oltre trent’anni, spaesato pensionato, entrambi innamorati della Poesia, vogliosi di fare cultura e contribuire con essa alla crescita dei nostri territori, delle nostre genti.

di Natale Pace

“U maluparraturi”, (il pettegolo), così amava bonariamente definirlo Nanù Isola Zappone, vedova di Domenico, quei pomeriggi che si chiacchierava di cultura e arte davanti ai suoi celebri caffè fumanti. Con me e con lei venivano spesso Benito Trimboli, tra gli ultimi grandi esponenti della scuola filosofica cardoniana, Lina Natalìa Tegano, pittrice di arabescati intrecci di olio e fili di seta, la grande poetessa Gilda Trisolini sempre con figlio al seguito e il marito il pittore Esposito, e altri.

Nino Zucco (S. Eufemia D’Aspr. 1910 – Roma 1987) giornalista, saggista, scultore, pittore, poeta, narratore, ha insegnato nei Licei Artistici Statali (anche al “Mattia Preti” di Reggio Calabria). Come pittore ha partecipato alle più importanti rassegne nazionali e internazionali. Sue opere si trovano in collezioni private e pubbliche. Una stupenda Via Crucis adorna la chiesa di San Sperato a Reggio Calabria e altri bassorilievi in bronzo sono al cimitero di Francavilla Marittima.

Zucco è rimasto giustamente famoso nel mondo dell’arte per i suoi dipinti, i bassorilievi e le sculture, ma non meno meritevoli di attenzioni critiche, a mio parere, sono i suoi scritti, sia quelli descrittivi dei rapporti di amicizia intrattenuti con importanti artisti, sia quelli narranti. Qualcuno ha giustamente scritto che Zucco narrava dipingendo e dipingeva narrando.

Nel 1956 ha Pubblicato “Fuoco a Djambra”, finalista al Premio Villa San Giovanni, con prefazione di Arrigo Benedetti:

“… egli raggiunge, attraverso una felice creazione di caratteri, un’efficacia descrittiva che fa dei suoi racconti un tipico e genuino esempio di narrativa moderna.”