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di Anna Foti

Una riflessione sul dono di Gesù che, facendosi Uomo, ha scelto la povertà di una grotta per nascere e una famiglia umile per crescere. Una storia universale soprattutto in quel Sud Italia che nel volume "Il Natale in Calabria", dato alle stampe nel 2006 con i caratteri della casa editrice vibonese Qualecultura nella collana Granelli di Sapienza, Saverio Strati descrive come scrigno di tradizioni da tramandare, come luogo in cui il Natale si riconosce universalmente nel Presepe che i ricchi fanno a casa e che i contadini ammirano dopo aver fatto il pellegrinaggio fino alla chiesa. Tra i brani da lui scritti e pubblicati su ‘Le vie d’Italia’, rivista mensile illustrata di geografia, viaggi, fotografia che il Touring Club Italiano curò dal 1917 al 1968, nel 1961 Strati propose anche il seguente, antesignano di quella sarebbe diventata una fiaba moderna, capace di emozionare e tramandare della Calabria la bellezza e l'intensità emotiva.

«Per un ragazzo del nord il Natale corrisponde certamente a vetrine illuminate e zeppe di giocattoli e di robe di ogni genere, all’albero dove sono appesi dei regali; e forse non avverte la preoccupa­zione dei genitori per la mancanza di soldi o di lavoro o addirittura del pane quotidiano. Per un ragazzo del sud, al contrario, il Natale prende un altro aspetto, gli si presenta con altra faccia. C’è il presepe, che ripete pari pari la storia della nascita del figlio di Dio. Ma il presepe in casa è segno di ricchezza: cioè vien fatto nelle case dei ricchi. Nelle case dei contadini o degli operai e artigiani non si fa il presepe. Lo si prepara in chiesa. Ed è opera popolare, costruito, messo su dall’abilità e spesso dalla genialità dei più bravi ragazzi; e concesso al godimento dei poveri attraverso la Chiesa, sempre mediatrice tra Dio e popolo. Certo anche Gesù Bambino sarà andato a piedi nudi per le vie del suo paese, e anche lui avrà avuto i calzoni a brandelli, visto che anche lui era figlio di gente povera. Suo padre era un povero falegname. Cosa poteva guadagnare? Ma certo Gesù era scalzo perché voleva».

Saverio Strati, lo scrittore calabrese tra i più grandi del Novecento nel 2014 spentosi a Scandicci, nell'attuale città metropolitana di Firenze, dove viveva da cinquanta anni, da tempo conduceva una vita molto ritirata in quella casa sul viale silenzioso della cittadina del Fiorentino che lo aveva accolto nel 1964. Con voce fioca si era detto stanco al citofono quando, non riuscendo ad annunciare il mio arrivo, avevo percorso quel viale nel 2012 e avevo suonato al suo citofono, sperando di poterlo incontrare e conoscere.

Nato a Sant’Agata del Bianco, allora provincia e oggi città metropolitana di Reggio Calabria, Saverio Strati, pur avendo dovuto lasciare la scuola in tempo di guerra per aiutare il padre muratore, non abbandonò mai la passione per la lettura. Finita la guerra, grazie all'aiuto finanziario di uno zio che risiedeva negli Stati Uniti, riprese gli studi.  

Primo calabrese insignito del premio Campiello nel 1977 con “Il Selvaggio di Santa Venere”, Saverio Strati non vide in vita pienamente riconosciuti i meriti che la sua penna avrebbe meritato, in Italia come anche in Calabria.

Oggi la piazzetta davanti alla sua casa, nel comune calabrese, la stessa descritta nel romanzo "Tibi e Tascia", porta il nome dei protagonisti del romanzo con cui Strati si aggiudicò il Premio Internazionale Veillon nel 1960. Solo nel 2014, una manifestazione in suo onore, promossa in collaborazione con la regione Calabria nel comune natio, ha goduto del riconoscimento per l'alto valore culturale da parte dell'allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.

Visse a lungo e fino alla morte a Scandicci in condizioni di indigenza tali da godere, non senza mortificazione, del sussidio della legge Bacchelli. Dopo la significativa campagna di sensibilizzazione del Quotidiano della Calabria e una lunga trafila burocratica, nel dicembre del 2009, gli fu concesso il vitalizio straordinario in quanto cittadino distintosi in un ambito del sapere, dunque un'eccellenza, che versava in difficili condizioni  economiche. La Calabria poco prima si era accorta di questo patrimonio umano e culturale. Così il Consiglio regionale aveva approvato una sorta di Bacchelli calabrese per riconoscere allo scrittore di Sant'Agata del Bianco, nelle more della legge nazionale, un beneficio economico.

Alcuni suoi romanzi hanno fatto il giro del mondo e sono stati tradotti in francese, inglese, tedesco, bulgaro, slovacco e spagnolo e alcuni suoi racconti sono apparsi su riviste cinesi e in antologie dedicate alla narrativa contemporanea italiana in Germania, in Olanda, in Cecoslovacchia e in Cina. Migliaia sono ancora i manoscritti rimasti inediti.

Strati iniziò a riordinare i primi racconti, che avrebbero formato il suo primo volume pubblicato nel 1956, "La Marchesina", il primo libro sulla ndrangheta in cui raccontava di riti e azioni dei clan calabresi, in tempi in cui non solo non si conosceva il fenomeno mafioso calabrese al di là dei confini regionali, ma neppure lo si nominava. Dopo "La famiglia Montalbano", il primo romanzo organico sulla mafia scritto da Saverio Montalto, al secolo Francesco Barillaro, tra il 1939 e il 1940 e pubblicato su impulso di Pasquino Crupi nel 1973 per Frama’S Edizioni (Chiaravalle centrale), furono proprio i racconti de "La Marchesina" (Mondatori, Milano, 1956) e il romanzo "Il Selvaggio di Santa Venere” (Mondatori, Milano, 1977) di Saverio Strati - e qualche anno prima l'articolo apparso sul Corriere della Sera il 17 settembre 1955 con il titolo "La Fibbia" a firma dello scrittore e giornalista di San Luca, Corrado Alvaro - ad osservare e a raccontare per primi l'onorata società e la ‘ndrangheta, esponendole ad un'attenzione nazionale. Tutto ciò precedeva di alcuni anni anche l'opera di Leonardo Sciascia in Sicilia che di mafia racconta ne "Il Giorno della Civetta" (Torino, Einaudi 1961). Solo nel 2010 la parola ndrangheta sarebbe stata "scritta" e introdotta, con indicazione specifica, nel codice di procedura penale. La letteratura di Strati, Montalto, Alvaro e Sciascia già leggeva, interpretava e denunciava i mali del tempo. 

Ma torniamo a "La Marchesina" la cui pubblicazione fu molto caldeggiata dal suo docente presso l’Università di Messina, il critico letterario Giacomo Debenedetti che in persona presentò ad Alberto Mondadori, a Milano, il suo lavoro. Siamo appunto nel 1956, quando cominciò a lavorare anche alla stesura del suo primo romanzo "La Teda" che avrebbe visto la luce con gli stessi caratteri nel 1957 e che sarebbe stato seguito da "Tibi e Tascia" nel 1959. Al seguito della moglie Hildegard Fleig, si recò poi in Svizzera dove scrisse gli altri due romanzi "Mani Vuote" e "Il Nodo", pubblicati rispettivamente nel 1960 e nel 1966. Sempre qui venne concepito e prese forma “Noi Lazzaroni” pubblicato nel 1972.

La vita anche familiare di Saverio Strati è stata raccontata dalla nipote Palma Comandè nel volume "Prima di tutto l'uomo" (Pellegrini editore 2017). La nipote conserva il ricordo di uno zio molto riservato, più propenso a controllare i sentimenti che a manifestarli, e con il quale cercò e trovò il modo di coltivare un rapporto ugualmente profondo. «E il contatto interiore con lui presi a cercarlo standogli il più possibile accanto a leggere, nel suo studio in un cantuccio, o in giardino tra aiuole cariche di fiori con sullo sfondo scalette e sentieri che, tra una pagina e una pausa, non smettevano di strizzare l'occhio alla mia inquieta fantasia. (...)

(...) Sulle edizioni di allora dei racconti e romanzi di Balzac, Maupassant, Cechov, Gogol. Tolstòj ancora permangono segni a matita che facevo da piccola quando, seduta sopra una copertina sul pavimento della stanza, rifiutavo i fogli di quaderno per i miei scarabocchi pretendendo, con gran prolusione di pianto, i libri che vedevo maneggiare a lui quando si sdraiava sul lettino nelle pause di scrittura e che in varie pile sostavano sul suo scrittoio. E quando lui, con fervide raccomandazioni, me li dava insieme con la matita, io ne assumevo avidamente la proprietà imprimendo i segni della mia esistenza, con delicatezza e a margine però, non solo in obbedienza alle sue prescrizioni, ma anche per non sottrarre a me la possibilità di decifrare in futuro il contenuto di quei segni, che dovevano essere molto importanti se mi toglievano per ore le sue attenzioni.

Così presi ardentemente a desiderare di imparare a leggere. Cosa che avvenne autonomamente e con largo anticipo rispetto al tempo canonico. Quando lui se ne accorse, volle verificare immediatamente con il primo scritto chiaro e breve che aveva sotto mano, il titolo del romanzo che stava scrivendo. Mi mise sulle sue ginocchia, lì allo scrittoio, girò la copertina del quaderno e "Leggi qua" mi disse. Io osservai per un attimo, sillabando mentalmente, poi d'un fiato "Tibi e Tascia" (...)», ricorda e scrive la nipote Palma Comandè.

Un uomo schivo ma dalla mente arguta e dalla fervida penna. La sua opera è stata e rimane un continuo tributo alla sua terra, alla fatica necessaria per lavorarla, pur dovendola un giorno lasciare, al dolore di vederla anche vilipesa e oltraggiata.

«Settembre con le sue belle giornate sen’era andato e s’era presentato ottobre con tanti colori diversi e anche tanta frescura e mille profumi di uva, pere e fichi.
Negli ultimi giorni di questo mese piovve parecchio. La terra s’imbrosacò, o inzuppò, s’ammollò parecchio e zappare era assai più pesante che trascinare la croce la sera del venerdì santo. Lavoravamo con piccone per poter pulire perbene la terra dalle erbacce. Non avevamo più unghie, dato che ad ogni colpo ci toccava levare manate di gramigna, di radici di pulicarie, di menta selvatica, di ortiche e di tante altre schifezzerie che divorano le sostanze della terra. Dietro di noi c’erano mucchi di zavorra. Montagne. La terra coltivata ne era letteralmente coperta»
(da “Il selvaggio di Venere” - premio Campiello 1977).

Un racconto doloroso che si dipana attraversando l’Italia sul filo di una riconciliazione con la terra di origine, il Sud, che non solo ha dato i natali al suo talento, ispirandolo e rendendolo fervido nel tempo, ma che al contempo lo ha anche lasciato ai margini, sospingendolo al Nord. La solitudine, l’isolamento, le rinunce, la dimenticanza e poi il distacco dalla Calabria, l’emigrazione, specchio oggi più di ieri dell’identità di una società in continuo movimento, è metafora di quello sradicamento la cui portata si scopre solo passo dopo passo e mai al momento della partenza.