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Di Natale Pace

IL GIORNO DEL GRANO

Oggi è il giorno del grano
e non stupitevi
se io, riposti i libri,
vengo a impugnare la falce con voi.
Oggi è il giorno del grano
e con voi voglio sudare
e ubriacarmi di papaveri.
Forza, compagni, cantiamo!
E voi donne lasciateci cantare
strambotti per l’amata
e serviteci gli orcioli di vino
già sotterrati per tenerli freschi.

Forza Rocco, Michele accompagnate
i miei stornelli in coro
e attenti a non mietervi le mani:
oggi non abbiamo bisogno di sangue
ci basta il nostro sudore.
E voi donne non tenetemi il broncio
se canto per le donne di città.
Via! Portate i fasci di grano
e alzate i covoni sull’aia
e dateci da bere
e cantate, cantate con noi:
oggi è il giorno del grano!
Stasera ci fermeremo fino a tardi
per fare quattro salti a tarantella
e ballerò con tutte
anche con zia Teresa la più vecchia
se non sarà ubriaca di stornelli.

  Ha poco più di vent’anni Rosario Belcaro quando scrive “Il giorno del grano” che, tra l’altro, non ritiene degna di essere inserita nelle sue raccolte pubblicate, mentre a me pare di freschezza lievitante, esempio di poesia popolare che nulla invidia ai grandi. Potrei essere tacciato di speculazione letteraria se lo abbinassi a Franco Costabile, considerando la similare tristezza delle loro esistenze, ma fino a un certo punto.

Fa bella mostra di sé nella mia libreria, tronfio e orgoglioso, un libro antologia critica di Rosario Belcaro”, poeta di Maropati, scoperto casualmente per dono fattomi da Fortunato Seminara. Eravamo andati a trovarlo, lo scrittore delle “Baracche”, con mia moglie e Nanù Rosina Isola Zappone.

Vedrai, è un personaggio straordinario” mi preannunciò Nanù “che aveva grande stima di Mimmo (Zappone). Se riusciamo a staccarlo dalla campagna e dalla vigna per qualche ora, rimarrai sorpreso!”

Non era difficile convincermi. Conoscere Seminara, nella sua casa, nella sua Maropati era per me motivo di grande interesse.

Mi avvicinai, quel giorno, a un uomo eccezionalmente lucido sulle vicende della cultura calabrese, sui suoi mali, sulle qualità eccelse di alcuni suoi esponenti, sulle negatività di tanti faccendieri e salottieri della cultura, “copia-incolla” che tanto male fanno alla Calabria, marcandola di gretto provincialismo. Ci offrì dolci e un delizioso caffè preparato rigorosamente con la cuccuma napoletana, rude, burbero, ma ricco di attenzione soprattutto per Nanù, con la quale a lungo discusse del grande contributo di Domenico Zappone al giornalismo e alla cultura calabrese e nazionale.

Non stava bene di salute, si vedeva da certe lunghe pause, interruzioni al dialogo senza apparente motivo, quando si attardava a scrutare fuori dai vetri, laggiù verso la campagna. Da quella maledetta notte di Natale di cinque anni prima, nel 1975, quando ignoti criminali (ma erano poi davvero ignoti?) diedero fuoco alla sua casa di campagna di Pescano. Bruciarono molti suoi libri, lettere, carteggi per lui preziosi, aveva cominciato il lento declino fisico e mentale. Stava male Seminara, ma diede fondo quel pomeriggio a tutte le rimanenti risorse di affabilità e affetto per la vedova di Mimmo Zappone e per gli ospiti che la accompagnavano.

Ai saluti, capì che il giovane scrittore che ero si aspettava da lui qualcosa in ricordo dell’incontro.

“Aspetta!”

Ciondolando si allontanò dalla cucina dove ci aveva ricevuto per ritornare a noi dopo solo qualche minuto.

“I miei libri li puoi trovare facilmente, ma questo, no e mi farebbe piacere che ti interessi in qualche modo a questo scrittore di Maropati, che tanta poca fortuna ha avuto nella sua breve vita.”

Mi consegnò, come fosse una reliquia “POESIA DI ROSARIO BELCARO” – antologia di tutte le poesie edite e inedite, curata dalla brava Emma La Face tre anni dopo la morte, edita da Fiorentino editore napoletano nel 1973. Vergò a mano, come su un suo libro, la seguente dedica: “Dal padre del poeta e da Seminara a Natale Pace”.

Sul momento celai malamente la delusione, ma a casa, assetato come sempre di letture e poesia, incuriosito da quello strano omaggio, bevvi tutto d’un sorso i versi di questo giovane sfortunato poeta calabrese, comprendendo, man mano che proseguivo nella lettura, i motivi del dono di Seminara, il suo bisogno di divulgarne la conoscenza.

Rosario Belcaro nacque a Maropati, piccolo centro di poche centinaia di abitanti della Piana di Gioia Tauro, famoso nella cultura calabrese per avere dato i natali a Seminara e Antonio Piromalli, il 9 aprile 1941 da Giorgio e da Rachele Pangallo. Nel paese natìo frequentò le elementari, diventando pendolare di pulman e treni verso la vicina Polistena per le medie. Si trasferisce a Reggio Calabria nel 1957 dove frequenta l’Istituto Tecnico Industriale. Non arrivò fino al diploma, non era certo il corso di studi adatto alla sua sensibilità, ma allora – ancora oggi, a dire il vero – dalle nostre parti si optava per la scuola tecnica, nella errata convinzione che agevolasse l’inserimento nella vita lavorativa.

Rosario, ancora giovanissimo, avvia una felice collaborazione a vari giornali e periodici di cultura.

Nel 1963 pubblica una raccolta di liriche “Olezzo di Calicanto” che vengono inserite nel XIX volume di Nuove Voci pubblicato da La Procellaria di Reggio Calabria. Prima ancora di questo esordio, viene segnalato al Decimo Convegno Poetico del 1962, mentre vince ex aequo l’anno dopo l’Undicesimo Convegno Poetico. Nel 1964 da alle stampe il primo volumetto di poesie tutto suo: “E sono pietre i giorni”.

La raccolta viene giudicata assai positivamente dalla critica. Scrive Decio Belli: “…Una prima raccolta di poesia dell’anima nei suoi molteplici riflessi umani. Poesia vasta e dolce … quel che importa osservare è la evidenza con la quale il Belcaro, seguendo l’impulso dei suoi sentimenti, esprime i suoi stati d’animo attraverso un linguaggio così vero e vivo da lasciar trasparire l’accordo del suo interiore con la realtà … il Belcaro è tanto giovane e così poeta!”

E Salvatore Terranova sul Progresso Italo-Americano:  “la sua poesia parla al lettore, al critico, con la dolcezza morale della sua anima… “

Segue nel 1967 il volume “Una lunga ossessione” che rappresenta un nuovo punto di arrivo e di partenza nel suo cammino poetico. In questa occasione la Fiera Letteraria esalta la grandeur poetica di Rosario, pubblicando in anticipo sull’uscita del libro, alcune tra le liriche più significative. Anche Napoli Notte ne pubblica alcune.

Lo stesso anno 1967 il Premio Nazionale di Poesia e Saggistica F. D’Ovidio lo premia con medaglia e diploma con lauro sempre verde per la poesia “Attese”, scelta tra circa mille liriche concorrenti. Su Libri Nuovi scrive Domenico Grugnali a proposito della raccolta “Una Lunga Ossessione”: “… la poesia di Rosario Belcaro, viva, spontanea, rivelazione di un ricco mondo interiore, fa bene all’anima… io vorrei che leggessero questo libro tutti quei giovani fatui che si interessano quasi esclusivamente di cantanti più o meno zazzeruti, di calciatori, di contestazioni fasulle e simili idiozie. Ne riceverebbero una lezione di vita.”

E’ la consacrazione definitiva per il giovane poeta di Maropati, ma è un’ascesa destinata purtroppo a fermarsi all’inizio della salita, perché Rosario Belcaro è già, a Napoli, minato da una malattia terribile, senza guarigione, che lo costringerà a un letto d’ospedale, condannandolo a chiudere la sua infelice esistenza, a meno di ventinove anni, a Napoli, il 30 gennaio 1970.

Due riflessioni:

  • La poesia di Rosario Belcaro ha vissuto soltanto la primavera della sua vita. Non ha avuto il tempo di affinarsi con la maturità, di crescere, staccandosi dai canoni scolastici della poesia classica, eppure Belcaro è riuscito a lasciarci pagine piene di vita e di originalità, capaci di ancorarsi in ogni caso a una sua personalissima tonalità poetica. Ci sono versi di questo poeta che stanno in piedi da soli, facendo scuola nuova, forma nuova, buone per tante generazioni di giovani poeti alla ricerca del verso personale. A pensarci mi vengono in mente tante affinità con un’altra artistica esistenza, spentasi in tenera età senza aver potuto esprimersi in tutta la potenzialità, quella del compositore palmese Nicola Antonio Manfroce.
  • Scriveva dunque Grugnali: una lezione di vita. Rosario Belcaro, condannato a letto, condannato a morte, consapevole del suo male irredimibile, che lo stava conducendo alla fine del suo tempo, scriveva di morte esaltando la vita, scriveva d’amore: per la vita, per la poesia, per le donne che sfioravano leggiadramente le sue giornate. Scriveva della sua ultima raccolta di versi, “Amore per Amore”, nel 1969: “Dopo oltre due anni, ho ripreso a scrivere versi. Non è forse una notizia importante, ma per me sì. Credo sia l’unica cosa per cui valga la pena di vivere e che sia l’unica saggezza che governerebbe bene questo mondo.”

Rosario Belcaro riposa oggi nel Recinto delle Memorie del piccolo cimitero di Maropati, accanto a Fortunato Seminara e Antonio Piromalli, altri due grandi uomini di Cultura di Maropati. Nell’agosto del 1999 la cittadina lo onora con una bella cerimonia commemorativa, presenti il padre che tanto lo amò e da lui tanto amato e il fratello. Maropati gli ha dedicato una strada importante. Tutto è compiuto.

Ma i poeti vivono eterni, ben oltre le umane celebrazioni; vivono coi loro versi nel cuore di tutti coloro che li leggono e leggendoli si interessano alla loro vita, alla loro morte, che di loro scrivono e scrivendone ogni volta li riportano in vita

Riportiamolo in vita Rosario Belcaro, lui che nella sua vita terrena ha vissuto così poco.

Io ho gustato appena
la mia stagione.
Ma di stagioni
non conosco che questa;
canti d’uccelli, musica di fiori,
nascite e vita.
La mia stagione
Non dovrebbe conoscere la morte.