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di Natale Pace

Lascio la strada statale n.106 a Ravagnese e inizio la salita costeggiando la vallata della fiumara Valanidi, il cui nome greco, “Valanidios” significa zona ricca di ghiande e dunque, immagino che nei tempi dei tempi qui i maiali andavano per la maggiore e redditizio fosse il loro allevamento.

A dire il vero, per tutto il tratto da Ravagnese e fino a Rosario Valanidi di querce, né piccole, né grandi, non se ne sono viste, per cui viene il dubbio che di porcili e allevamenti suini, ormai, la  gente del luogo ha deciso di farne a meno. Più verosimile l’ipotesi che siano stati tolti gli alberi per fare posto alle case, edificate parecchio selvaggiamente, al punto che la strada è ridotta appena a una carreggiata, groviera di buche, abitazioni non ricche, non ville opulente, semplici case che ormai la costeggiano senza soluzione di continuità. Eppure l’auto sale regolare, gimkanando tra i fossi, ma con percorso dolce che si lascia apprezzare per certi angoli dove puoi fermarti e godere la vista del mare Jonio, che poco più a destra verso nord sullo Stretto si sposa col Tirreno e delle coste, calabrese di qua, siciliana di fronte, con l’Etna che spadroneggia su tutto, bianco e ammantato, quel filo di fumo che il maestrale allunga parallelo all’orizzonte verso sud-est.

Sono pochi chilometri da percorrere sulla via provinciale che, rasentando la fiumara, mi condurranno alla meta. Gustando, centellinando la salita metro dopo metro, attraverso le piccole frazioni abitate ormai da poche anime, sempre più poche man mano che la strada si allontana dal mare e dalla estrema periferia reggina, l’una attaccata all’altra, che hanno nomi greci e di santi: San Gregorio (San Grioli), Croce Valanidi, (con le frazioni Bovetto, Luppinari, Pernasiti), San Giuseppe, Oliveto (‘U Livitu, oltrepassato il quale rasento Candico, per giungere a Rosario Valanidi (a sua volta diviso in Serro Valanidi, Ribbata e Cubba).

Più sopra, ma oggi non ci arrivo, c’è Trunca, piccola frazione di circa seicento anime dove la fiumara Valanidi ha inizio. Ancora sopra Trunca, a volerci andare, è Santa Venere, terra dove viene relegato dal padre a governare il gregge Leo Arcadi, il Selvaggio reso celebre da  Saverio Strati e che allo scrittore di Sant’Agata del Bianco fece vincere il Campiello 1977.

Il mio viaggio in auto a Rosario Valanidi termina.

Oggi, la fiumara porta a valle poca acqua e proprio in questa un tempo molto più popolosa frazione di Reggio Calabria sono stati artificialmente creati dei salti in cemento che danno origine a deliziose cascatelle, almeno d’inverno.

Ma c’è stato un tempo che il fiume l’ha fatta pagare cara a chi incurante del pericolo, fidando sulle pacifiche acque a prima vista incapaci di diventare cattive, costruì casa, e capanne, e allevamenti a ridosso delle sponde.  Molti nella storia furono gli alluvionati, e ancora oggi le famiglie ricordano le abbondanti piogge del 1953 e le inondazioni che causarono danni e vittime e spopolarono intere aree, specialmente a Oliveto e Rosario e ancora rimangono interi nuclei di case vecchie, dirupate, disabitate a testimoniare quelle tristi giornate..

La chiesa di San Nicola di Myra in Vermicudi la vedi subito agli ultimi tornanti, prima di addentrarti nelle case. Domina dall’alto dello strapiombo sull’inizio della vallata del Valanidi, sulle case, le timpe dove allignano selvatici finocchielli, qualche tamerice e, ad agosto, in pieno sole, il cappero spinoso dai fiori bianchissimi.

Proprio alle ultime case di Rosario, quando la provinciale prende a salire più ripida verso Trunca, su un alto sperone roccioso, il segnale turistico divelto, che nessuno s’è curato di rimettere in piedi, indica e racconta la bellezza del luogo, mi ricorda, casomai me ne fossi scordato, che siamo comunque in Calabria, a dispetto delle bellezze dei posti. In altre zone d’Italia, genti  più civili (furbe???) farebbero di posti come questo risorse turistiche e posti di lavoro, ma, tant’è….cosa vuoi che importi di un segnale di indicazioni turistiche finito per terra?

Parcheggio e, a piedi, m’inerpico per la deliziosa stradina, ripida da mozzare il fiato e le gambe, ben tenuta, bene acciottolata, con ringhiera in ferro per appoggiare la stanchezza; tre, quattro faticosi tornanti per superare il duro dislivello di una cinquantina di metri che conduce sulla facciata posteriore della chiesa. E poi davanti al portone d’ingresso, regolarmente serrato (sono ormai così tante le chiese coi portoni serrati!). Sulla facciata la colorata effigie del santo.

E’ un piccolissimo edificio dedicato al culto religioso di San Nicola, parecchio rimaneggiato che, pare, un tempo si scorgesse addirittura dalla Sicilia in quanto il suo intonaco di antico colore rossastro spiccava sul resto del paesaggio. Sull’architrave in tufo del portone un’antica iscrizione: “innumeris… miraculis 1668”.

Forte in quest’area la dedizione a San Nicola, famoso per aver dato origine alla tradizione di Babbo Natale, un po’ meno in quanto protettore tra gli altri di profumieri, marinai, bottai, bambini, ragazze da marito e… prostitute. Ma qui, a Rosario, dove origina la vallata e la fiumara di Valanidios, San Nicola è anche in Vermicudi, cioè delle formiche.

Il perché di tale curioso epiteto è’ una vecchia e bella storia che vale la pena conoscere.

Dovete sapere che la Chiesa anticamente era costruita sul greto del torrente e che, durante uno dei tanti disastrosi alluvioni dei tempi andati, quello del 27 settembre 1793, essa venne totalmente devastata dalle acque impetuose. I popolani, rovistando tra le rovine della chiesa, ritrovarono miracolosamente intatto il Calice d’argento con le ostie consacrate. Si decise di realizzare provvisoriamente più in basso in contrada Casale, una baracca dedicata alla Madonna dei Poveri, in attesa di riedificare la chiesa distrutta.

Orbene, com’è, come non è, il posto destinato ad erigere la nuova chiesa, sempre a ridosso della fiumara, non sarà stato molto gradito al Santo. La leggenda ci dice che mentre di giorno gli operai si rompevano la schiena sui lavori, la notte una schiera innumerevole di formiche (in greco Virmicudi e secondo la parlata grecanica “tà vermicia” appunto formiche) con, immagino, immane fatica, poverine, trasportava il materiale edile verso un’area sita in luogo più alto e meno soggetto alle alluvioni: proprio sopra l’attuale spuntone di roccia.

Le manovalanze riportavano al cantiere il materiale, ma il miracolo si verificò per tre volte e certamente le povere formiche lo avrebbero faticosamente perpetrato ancora, se le genti di Rosario non avessero capito l’antifona, e cioè che il Santo non era disponibile ad accettare casa in quel posto insicuro ai margini della fiumara, col pericolo di subire altri alluvioni e devastazioni e che il miracolo stava a dimostrare la Sua ferma volontà che l’edificio di culto fosse ricostruito proprio là dove le formiche suggerivano.

Non del tutto convinto il parroco di Rosario (testa dura i calabresi!) volle sottoporre la decisione ad un’altra prova e dunque fece gettare dal dirupo delle formiche un’ampollina di vetro e un uovo pretendendo che non si sfracellassero sul fondo. Così invece avvenne e il Santo superò la prova, perché sia l’ampolla di vetro, che l’uovo, vennero ritrovate a fondo valle senza il minimo graffio.

In contrada Casale, oggi, in mezzo ai silos di un’azienda per il trattamento di materiale inerte per l’edilizia, su terreno di proprietà privata, è ben visibile, anche se naturalmente abbandonata e sbaraccata, la provvisoria di allora chiesetta dedicata alla Madonna dei Poveri.

Fino a qui la leggenda, tradotta oralmente ai giorni nostri.

Ma le storie dei vecchi spesse volte confliggono con i documenti della Storia (con la esse maiuscola) e coi libri degli studiosi.

Il cartello posto all’inizio della salita che porta allo sperone con la chiesa, racconta che la stessa sorgesse   in cima all’abitato di Rosario, già in epoche precedenti ai fatti raccontati e alle formiche, addirittura risalendo la sua costruzione probabilmente alle dominazioni bizantine, il che sarebbe confermato da alcune tombe di quella civiltà ritrovate nel territorio.

Atti vaticani certificano che già nel 1558, alla morte del parroco Andrea Barone, fu dato incarico inizialmente al chierico messinese Lomellino, il quale rinunciò a favore del canonico reggino Lattanzio da Tarsia. Nel 1595 l’arcivescovo D’Afflitto ci dice che la Chiesa di San Nicola da Vermicudi fosse un beneficio ruris Velameli in territorio di Reggio Calabria. Lo stesso arcivescovo il 17 febbraio 1626   eleva la chiesa al rango di parrocchia.

A me pare che l’una Storia (con la esse maiuscola) non escluda categoricamente l’altra tramandata oralmente dai vecchi, se, per esempio, ci si accorda sul significato che può avere il fatto che la chiesa sorgesse già prima “in cima all’abitato di Rosario”. Perché ancora oggi le case in cima all’abitato sono a ridosso della fiumara e la chiesa in quei posti costruita potrebbe benissimo essere stata distrutta dalla piena, eccetera, eccetera.

Che volete, l’idea di vanificare il tremendo lavoro di milioni di povere Vermicudi non mi garba.

Vero è che di quei pazienti imenotteri nei pressi della chiesa di San Nicola non sono riuscito a trovare una sola discendente; sono scomparse, come le querce nella vallata del Valanidios.

Mi viene da pensare che siano state tutte consunte per la titanica fatica e comunque io faccio il tifo per le formiche!