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Di Natale Pace

Domenico Zappone pubblicò il volumetto “Le cinque fiale” nel 1952: aveva 41 anni.

Il libro comprendeva, oltre al racconto lungo omonimo, altri tre racconti: Fine di un anno, Fine del deserto, Fine di una guerra.

Considerando l’idiosincrasia, la quasi puerile timidezza dello scrittore palmese per le pubblicazioni di sue opere, possiamo considerare le cinque fiale una vera rarità, preziosa rarità, accompagnata, molto più tardi da “Calabria nostra” proposta antologica di scritti tutti di autori calabresi per i ragazzi delle scuole medie per la quale, come spesso accade in questi casi, diceva la bella Nanù, sua moglie, si ebbe la rabbia e il rancore degli scrittori esclusi e il silenzio degli inclusi, salvo naturalmente rarissime eccezioni.

Dopo la morte di Zappone, i quattro racconti vennero ripubblicati insieme ad altri 11 inediti, per una iniziativa editoriale della Frama Sud del 1984, curata dall’amico, forse il più caro, il Sharo Gambino, con qualche ritocco, dovuto probabilmente alla scoperta di nuovi dattiloscritti, messi a disposizione dello scrittore serrese da Nanù Isola Zappone, sotto il titolo “Il mio amico Hemingway e altri racconti” (qui, per esempio “Fine del deserto” cambia titolo e diventa “Il deserto”).

Anche Gambino, nella presentazione della raccolta rivela la pudicizia di Zappone nel proporre la stampa di sue opere.

Una delle prime volte che Zappone si recò a Serra San Bruno, a casa di Gambino, l’amico gli fece vedere una cartella nella quale aveva messo insieme tanti ritagli di articoli giornalistici pubblicati su Il Giornale d’Italia e Il Tempo proponendogli di farne uno o più volumi. Lui, Gambino avrebbe curato l’editing (come si dice oggi), la ricerca dell’editore e il rapporto con quello. Insomma Zappone senza muovere un dito si sarebbe trovato in mano i libri già bell’e stampati:

“Me ne dissuase con uno di quei suoi discorsi brevissimi, lapidari, un misto di amarezza, di sfiducia e di sarcasmo, e io rinunciai a malincuore al proposito e poi sempre mi rimproverai di non aver insistito, di non averlo controbattuto ed anche di non avergli usato violenza facendolo lo stesso, il libro, malgrado la sua pervicacia a non volerne sentir parlare”.

             Nell’autunno del 1951, tramite Mario La Cava conosce Leonardo Sciascia che gli chiede di avviare una bella collaborazione con la sua rivista “Galleria”. A Sciascia, che di lui dimostra grande considerazione nelle lettere, Zappone invia il volumetto “Le cinque fiale”. Il primo agosto 1952, l’autore de “Il giorno della civetta” risponde:

“Caro Zappone

ho avuto giovedì il libro, e oggi la tua lettera. Ho subito letto, il libro, con piacere vivissimo. Nella recensione che ne scriverò, dirò le mie impressioni: che sono state tali da farmi pensare che il libro è troppo esiguo rispetto all’interesse che accende nel lettore, al piacere di stare in compagnia di un così limpido narratore che nel lettore suscita.

Il compaesano Leonida Repaci fa inserire il libro nella cinquina dei finalisti per la narrativa al Viareggio di quell’anno, ma l’opera non vince e la delusione per Zappone è grandissima e pensosa, soprattutto perché si disse che ciò fu per un voto soltanto e che a mancare fu proprio il voto di Repaci.

Servirono anni per ristabilire un minimo di cordialità nei rapporti tra i due e fu sempre Zappone a fare il primo passo, nel 1971 quando fece avere allo scrittore dei “Rupe” le copie della Gazzetta del Sud che pubblicava un lungo reportage sui Fatti luttuosi della Varia di Palmi del 1925. Nel servizio un intervistato palmese dichiarava che Repaci uscì dal carcere perché aiutato dalla famiglia Mussolini. Ma già qualche anno prima, quando Repaci venne processato per oltraggio alla pubblica decenza per la pubblicazione de “Il deserto del Sesso”, Zappone testimoniò, insieme a tanti altri importanti esponenti della letteratura e dell’arte, sul valore artistico dell’opera di Repaci e le testimonianze valsero ad assolvere dalla pesante accusa Repaci.

Ma dopo “Le cinque fiale” con annesse delusioni, Zappone calò una tela sulla sua produzione narrativa dedicandosi quasi esclusivamente al giornalismo, ai resoconti di viaggio come inviato di giornali a tiratura nazionale come l’allora famoso Giornale D’Italia, Il Tempo, il Gazzettino del Mezzogiorno e il giornale radio televisivo dove rimasero famosi i suoi servizi di chiusura che non venivano letti da lui, ma che finivano con l’immancabile, indimenticabile: “firmato: Domenico Zappone”.

Rimangono di quella produzione centinaia di incredibili viaggi raccontati con sana ironia, affabulazione che attrae, dissacrazione (proprio quelli che voleva stampare in volume Gambino) e che gli hanno anche procurato importanti riconoscimenti.

Come il Premio Villa San Giovanni, il Conca D’Oro, il Premio Sila nel 1967 assegnatoli da una giuria presieduta da Giuseppe Ungaretti per un articolo pubblicato su “Il Tempo” il secondo Premio di 500 mila lire all’unica edizione del “Cinzano Cavour” (il primo premio venne assegnato alla memoria di Umberto Saba) per l’articolo ““La Madre di Alvaro”, forse lo scritto più bello di Zappone in cui raggiunge livelli di pathos altissimi descrivendo l’anziana madre dello scrittore di San Luca che viveva con il figlio Massimo a Caraffa del Bianco, ignara della morte prematura di Corrado. Struggente.

Domenico Zappone nacque a Palmi, la città di Cilea, Repaci e Manfroce,a il 16 giugno 1911, frequentò il liceo classico a Reggio Calabria e la facoltà di giurisprudenza a Messina. In seguito ad una grave malattia, interruppe gli studi e quando li riprese si laureò in lettere a Catania.

Una banale caduta mentre svolgeva il servizio militare tra il 1941 e il 1943 gli procurò una menomazione al ginocchio che si aggravò fino a portarlo sull’orlo dell’amputazione e della morte. Un lungo periodo di via crucis ospedaliera e di cure fino a quando appunto, ed è quello che racconta in “Le cinque fiale” non riuscì a superare il pericolo e riprendersi seppure con lentezza, senza però mai guarire del tutto. Quella gamba inutilizzabile se la strascicò per tutta la vita, costretto al bastone per sorreggersi. Quel periodo tra la vita e la morte, quelle sofferenze, l’impossibilità a guarire del tutto, diventare un uomo normale, lo segnò per la vita.

Furono la gamba e il bastone, probabilmente, a farlo ritornare “sconfitto” a Palmi, quando, negli anni ’50 provò a trasferirsi a Roma, seguendo le orme di Repaci e del suo Alvaro, avendo sempre sognato di andare via, inserirsi negli ambienti letterari e artistici romani che contavano. Per quella gamba e quel bastone si sentì diverso, emarginandosi, ritirandosi, scendendo dal treno che pure aveva tentato di prendere.

L’idea della morte, il malo seme dell’auto-devastazione cominciò a maturargli dentro già da quella guarigione; lo troviamo quel seme in quasi tutti i racconti e in tanti dei suoi straordinari resoconti di viaggio da inviato speciale, anche se vi è da dire che forte nei suoi scritti è stato il contrasto tra la esteriore esuberanza, la vena narrativa affabulatrice, l’ironia e la dissacrazione riscontrata negli articoli giornalistici e il raccontare sofferto, inquieto, crepuscolare dei racconti.

             I quattro racconti compresi nel volume “Le cinque fiale” sono in questo senso emblematici, Sono i primi scritti da Zappone e sono quelli più degli altri pieni di tristezza e dolore, nostalgia per la vita che avrebbe potuto essere e auto compatimento per quel che invece gli si prospettava per il futuro.

Nel primo racconto che dà il titolo al libro, Nanù, la bella e coraggiosa moglie di Mimmo (si chiamava in verità Rosina Isola, ma per una delle sue celebri celie egli le affibbiò il nomignolo perché, diceva, Rosina è nome da cameriera e tutti la chiamammo Nanù, sempre!) arriva in ospedale direttamente dal treno, da Napoli, ostentando come un trofeo la scatolina con le cinque fiale.

Zappone dopo il telegramma con la bella notizia del ritrovamento delle cinque fiale necessarie a salvargli la vita non ha chiuso occhio tutta la notte:

“ma quella notte fui calmo: la fiducia dell’attesa, dopo i mille affannosi dubbi del giorno, era valsa un poco a rasserenarmi, tanto che alla morte. non pensai affatto, e non che io la morte la temessi, anzi posso affermare che non la consideravo affatto, addirittura non esisteva, l’avevo chiamata chissà quante volte nelle settimane passate come liberatrice, piuttosto perché m’ero lasciato andare a un certo senso di stanchezza, oscuro ma riposante”.

Le cinque fiale compiono il miracolo, l’infezione alla gamba guarisce, Zappone guarisce, la coraggiosa moglie gli ha salvato la vita.

Ma da quell’episodio, catalizzante di tutta la vita di Mimmo, da quella guarigione, assurdamente, Zappone inizia il suo viaggio verso la morte lungo ventiquattro anni, pieno di soddisfazioni letterarie e giornalistiche, soprattutto giornalistiche, pieno di riconoscimenti, ma lento e inesorabile cammino verso la morte. Non lo dissuade l’amore della sua fedele compagna di vita, né l’affetto smisurato del figlio, della parentela; non lo sviano gli importanti amici che per lui nutrono grande stima come Leonardo Sciascia, come Giuseppe Berto, come Gilda Trisolini, Giuseppe Selvaggi, Antonio Altomonte, Pasquino Crupi, Fortunato Seminara, Sharo Gambino che lo ritenne suo maestro, grandi, come lui, coglioneggiatori come Giuseppe Malara di Gallico, malefico direttore del “Piccolissimo” sul quale Zappone, firmandosi Belzebù o con altri consimili firme dissacrò il mondo sparlando e cazzeggiando sugli argomenti più seri, sui personaggi più sacri della cultura.

Aspettando l’arrivo della moglie con le miracolose cinque fiale, il pensiero dello scrittore inevitabilmente si sofferma sulla vita e sulla morte e ci dà immagini stupende del come la immaginava, del come la voleva:

“Ecco. Così avrei voluto scioccamente che fosse per me. Senza pianti, con le campane giulive, l’anima leggera e una fanfara alla buona che faccia tenere il passo con allegria. Avrei voluto andarmene al tramonto, in una bella luce calda accesa sulla collina, dritto dritto verso i cipressi alti sul muro di cinta, e avere il saluto degli uccelli e il canto dei compagni come in una gita verso un paese misterioso e lontano”

Insomma, questo lungo racconto quello che più si avvicina ad essere un romanzo, lui che di romanzi non ne scrisse, nasconde il seme della morte. Zappone lo fece germogliare per 24 lunghi anni e quando si rese conto che la pianta era abbastanza alta e fiorita, la recise con un colpo netto, con poche pastiglie di morte, una triste e uggiosa giornata autunnale, il 5 novembre 1976.

Nanù che a Napoli c’era passata una volta di sfuggita insieme a lui, sapendo che poteva trovarla solo al mercato nero napoletano “quella tal medicina” costosissima, proveniente dagli Stati Uniti e miracolosa, non ci pensò due volte a catapultarsi da sola nell’inferno dei sobborghi di Napoli e riuscì a trovarle le cinque fiale della vita.

E’ per questo la morte non è l’unico personaggio di questo bellissimo racconto lungo. L’altro, importante, tanto quanto, è Nanù, l’eroina che per questa volta la morte la vince, con la sua pazzia che la fa girare per Napoli, per i bassifondi, gli ospedali da campo, le infermerie:

“era una donna vittoriosa, s’era battuta senza risparmiarsi, aveva fatto quanto io certo non sarei stato capace di fare, quanto nessuno sarebbe stato capace di fare, perciò potevo essere orgoglioso, avrei dovuto dirle grazie o farle un segno di gioia, rallegrarmi e invece non riuscivo a pronunziare una sola parola”.

Gli altri racconti che fanno parte del volume:

“La fine del deserto” dove un episodio di bullismo di ragazzi dediti al sopruso e alla violenza si trasforma in tragedia.

In “Fine di una guerra” la vita di disagi e mancanze della trincea finisce con la fine della guerra. Un gruppo di commilitoni prende a piedi la strada del ritorno e lungo il cammino sostano presso un amico che li rifocilla e gli da un posto per dormire. Le tre figlie di lui, invisibili, celate, diventano per i giovani reduci un miraggio del ritorno alla vita. Nella loro fantasia esse si presentano bellissime e formose, ma alla fine la delusione è tanta nel constatare che si tratta invece di “tre povere ragazze deformi, coperte alla meglio da scialletti e stracci”.

L’ultimo racconto compreso è “Fine di un anno” anche questo autobiografico del periodo di degenza e cura in un ospedale lontano da casa.

Zappone è ricoverato da otto mesi quando arriva il primo Natale che lo trova con altri pochi degenti che come lui hanno la casa e la famiglia troppo lontana. Immobile a letto, vede scorrere nella memoria le stagioni che la mente collega ai giochi da ragazzo: l’inverno era il tempo delle nocciole, la primavera degli aquiloni. La moglie Nanù e il figlio Elio lo vanno a trovare per trascorrere insieme quella giornata di festa portandogli i dolci tipici del Natale calabrese.

             Con la ristampa di “Le cinque Fiale” di Domenico Zappone, le Edizioni Pace proseguono il percorso culturale di valorizzazione e riproposizione di autori calabresi nella consapevolezza che la poesia, la narrativa, la storia scritte dai nostri autori non solo è utile a saldare un debito che la critica nazionale e i programmi scolastici hanno nei loro confronti, ma che proprio per questo tante opere valide e importanti, spesso cadute anche  nella nostra dimenticanza, hanno il diritto di essere posti all’attenzione prima dei calabresi e poi di tutto il Paese.