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di Anna Foti

Con amore e rigore racconta la città calabrese dello Stretto lo scrittore e intellettuale del Novecento, originario di Bovalino, Mario La Cava. A Reggio lo legò, nel tempo, un sentimento crescente e sconfinato al punto di rivendicare per la patria di Corrado Alvaro, Fortunato Seminara e Francesco Perri, un destino di città di cultura e di rara bellezza. Manifesto di questo amore è il volume “Lettere da Reggio Calabria”, contenente foto d’epoca e suoi scritti finora inediti e che il figlio Rocco, che ha in cura un patrimonio di altri elaborati mai pubblicati del padre nell’archivio di famiglia, ha raccolto in questo volume, edito da Nuove edizioni Barbaro, con il saggio introduttivo del critico letterario Giuseppe Italiano. Un vero e proprio omaggio alla città di Reggio Calabria da parte di Mario La Cava e suo figlio Rocco, pubblicato nel 2016.

Una vita trascorsa a vergare quotidianamente la carta con la sua penna asciutta, quasi frammentaria, convinto come era che lo scrittore dovesse rievocare la vita, esprimendo un dato naturale in modo fresco, ingenuo e personale, senza lasciarsi influenzare. La curiosa osservazione per Mario La Cava iniziava dalla sua Calabria e dalla provincia reggina, la sua provincia, con in sé tutto, folklore e grandi sentimenti in un intero mondo in miniatura.

di Anna Foti

        «Qui i paesani mi hanno accolto umanamente, spiegandomi che, del resto, si tratta di una loro tradizione e che fanno così con tutti. Il giorno lo passo “dando volta”, leggicchio, ristudio per la terza volta il greco, fumo la pipa, faccio venir notte; ogni volta indignandomi che, con tante invenzioni solenni, il genio italico non abbia ancora escogitato una droga che propini il letargo a volontà, nel mio caso per tre anni. Per tre anni!» . Lo scrittore piemontese Cesare Pavese descrive così l’esperienza di confinato a Brancaleone nella lettera al suo professore Augusto Monti. «Studiare è una parola; non si può niente che valga in questa incertezza di vita, se non assaporare in tutte le sue qualità e quantità più luride la noia, il tedio, la seccaggine, la sgonfia, lo spleen e il mal di pancia. Esercito il più squallido dei passatempi. Acchiappo le mosche, traduco dal greco, mi astengo dal guardare il mare, giro i campi, fumo, tengo lo zibaldone, rileggo la corrispondenza dalla patria, serbo un’inutile castità», prosegue ancora nella missiva. 

            Lo zibaldone - di leopardiana memoria -  è quello che lo scrittore piemontese inizia a scrivere il  6 ottobre 1935 a Brancaleone.
 «Che qualcuna delle ultime poesie sia convincente, non toglie importanza al fatto che le compongo con sempre maggiore indifferenza e riluttanza. Nemmeno importa molto che la gioia inventiva mi riesca qualche volta oltremodo acuta. Le due cose, messe insieme, si spiegano coll’acquisita disinvoltura metrica, che toglie il gusto di scavare da un materiale informe, e insieme interessi miei di vita pratica che aggiungono un’esaltazione passionale alla meditazione su certune poesie».  

di Anna Foti

"Sono andato al parco, quella sera, perché volevo fare una cosa per me. Ma siccome non era questo il mio destino è successo che ho fatto una cosa per tutti". Così Giuseppe - come riportato nel volume "Muori cornuto. Giuseppe Zangara, l'uomo che tentò di uccidere il presidente Roosevelt" di Arcangelo Badolati e Peppino Mazzotta, stasera al centro della conversazione in programma alle ore 21:30 al circolo Polimeni di Reggio Calabria, nell'ambito dei Caffè Letterari del Rhegium Julii - risponde all'agente che lo interroga nel tentativo di trovare prove circa la presenza di altri complici e di un complotto criminale contro la civile società Americana. Quella stessa che nel secolo scorso consentì di oltrepassare le sue  frontiere a tanti poveri emigranti italiani, e soprattutto meridionale, per poi sfruttarli, maltrattarli, relegarli ai margini, discriminarli, tradendo il sogno americano di un riscatto negato in Patria e da conquistare Oltreceano, seppur con fatica, ma con dignità.

di Anna Foti

Alle pendici occidentali dell’Etna, nell'attuale città metropolitana di Catania, una cittadina di quasi venti mila abitanti, Bronte, nota per il suo pregiato pistacchio, in epoca risorgimentale al tempo del Regno delle Due Sicilie, fu teatro di una rivolta sanguinosa, poi punita con fucilazioni seguite a processi sommari. Quei fatti ispirarono la novella “Libertà” (da “Novelle Rusticane”) di Giovanni Verga, la raccolta di saggi “La corda pazza” di Leonardo Sciascia e il film, diretto nel 1972 da Florestano Vancini, intitolato proprio “Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato”. Lo stesso Leonardo Sciascia contribuì alla sceneggiatura, dedicata ai Fatti di Bronte e a quei primi ardenti dieci giorni di agosto del 1860.

Bronte fu anche sede del ducato dell’ammiraglio britannico Nelson per il quale ebbe tale ammirazione, da acquisirlo come proprio cognome, il reverendo irlandese Patrick Prunty (o Brunty), padre di tre donne scrittrici, l’unico caso della letteratura mondiale, le sorelle Charlotte, Emily e Anne, tutte morte intorno all’età di trenta anni, tutte e tre autrici di romanzi riconosciuti come eterni capolavori di letteratura inglese e opere intramontabili di narrativa romantica.

Il segno diacritico, detto dieresi, sul grafema ‘e’, finale di parola, consentì di mantenere il suono della stessa vocale come in Italiano dal momento che, invece, nella pronuncia inglese, la stessa vocale sarebbe venuta meno. Ecco che Bronte diventò Brontë e il nome del paese siciliano si legò in modo indissolubile a quello di tre scrittrici e al contributo da loro reso alla grandezza della Letteratura di tutti i tempi.