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di Anna Foti

«L'intelligenza non avrà mai peso, mai,
nel giudizio di questa pubblica opinione,
neppure sul sangue dei lager otterrai,
da una dei milioni d'anime della nostra nazione,
un giudizio netto, interamente indignato.
Irreale è un'idea, irreale ogni passione
di questo popolo ormai dissociato
da secoli, la cui soave saggezza
gli serve a vivere, non ha mai liberato.
Mostrare la mia faccia, la mia magrezza,
alzare la mia sola puerile voce
non ha più senso. La viltà avvezza
a vedere morire nel modo più atroce
gli altri, nella più strana indifferenza.
Io muoio ed anche questo mi nuoce»

"Gli italiani" di PierPaolo Pasolini

Un intellettuale arguto e radicale, capace di guardare oltre i suoi tempi, precorrendo quelli che sarebbero seguiti, e di comunicare efficacemente gli esiti della sua osservazione e le sue analisi attraverso tanti linguaggi, PierPaolo Pasolini vedeva così gli italiani del suo tempo. Questa sua poesia ne denuncia severamente, in quella che probabilmente riteneva essere la peggiore epoca della storia dell'uomo, la capacità di indifferenza e di straniamento conseguenze dell'omologazione distruttiva, dell'alienazione industriale e della società dei consumi, quest'ultima considerata il vero fascismo per lui che nell'anno dell'ascesa della dittatura era nato a Bologna.

Le parole scritte su carta e pellicola

Poeta, scrittore, regista, sceneggiatore, drammaturgo, giornalista e filosofo italiano, considerato tra i maggiori artisti e intellettuali del XX secolo, autorevole esponente del Neorealismo letterario, a conferma della sua poliedricità ha lasciato notevoli contributi come pittore, filosofo, romanziere, linguista, traduttore e saggista. PierPaolo Pasolini, con i suoi scritti e i suoi film, fu autore di provocazioni, figlie del Sessantotto e della emergente società materiale, ancora forti e attuali, ancora capaci di interrogare le coscienze, sfidando il comodo perbenismo di circostanza e l’anticonformismo di facciata, che dietro false rivoluzioni celava l’omologazione della borghesia, la sottomissione al potere subdolo delle dittature moderne del consumo, della mercificazione del corpo e della demonizzazione della sessualità.

La sua prima raccolta reca il titolo "Poesie a Casarsa" (Libreria Antiquaria Mario Landi, Bologna, 1942) e fu scritta in Friuli dove Pierpaolo Pasolini, disobbedendo alla chiamata alle armi, si rifugiò durante la Guerra. Lì visse con la madre e, mentre il fratello Guido si arruolava nelle formazioni partigiane nelle fila delle quali perse la vita nel 1945, aprì la propria casa per insegnare, con la madre, ai ragazzi la cui scuola era stata bombardata.

Furono questi versi di poesia civile ad avviare la pubblicazione della sua sterminata attività intellettuale, scandita anche da romanzi, film, sceneggiature, testi teatrali, saggi, epistolari, interviste, editoriali e da traduzioni dal latino, dal greco e dal francese. Seguirono altre raccolte, tra le quali "La meglio gioventù" (Biblioteca di Paragone, Sansoni, Firenze, 1954), prima del suo esordio narrativo. Il suo primo romanzo "Ragazzi di Vita" (1955) subì un processo per oscenità poi conclusosi con una assoluzione con formula piena. Nel 1959 pubblicò, sempre con Garzanti, il suo secondo romanzo "Una Vita Violenta" sempre dedicata alla vita nelle borgate romane e all'adolescenza difficile. Nel 1961, diresse il suo primo film "Accattone", nel quale fu interprete anche la giornalista e scrittrice di Reggio Calabria, Adele Cambria, sua amica, presente anche nel documentario "Comizi d’amore" (1965) e nell'altro film tratto dal suo romanzo "Teorema" (1968).

Ateo e anticlericale, credeva nella religione come cammino dello spirito e non come imposizione della Chiesa. Riteneva Gesù un rivoluzionario al fianco dei poveri e alla sua storia dedicò il film "Vangelo secondo Matteo" nel 1964, oggetto di polemiche nel solco di quelle già destate dal suo episodio "La Ricotta" del film collettivo Ro.Go.Pa.G. (1963), titolo che racchiude le iniziali dei registi Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti. Ne “Il Vangelo secondo Matteo”, Pasolini affidò alla adorata madre, la scrittrice, attrice e insegnante Susanna Maria Colussi, alla quale era profondamente legato - «(...)sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore (...)» - il ruolo di Maria di Nazareth. A lei dedico la struggente poesia  “Supplica a mia madre” (1962), pubblicata nella prima edizione del libro “Poesia in forma di rosa” nel 1964.

Pubblicò altre raccolte poetiche, come "Le ceneri di Gramsci" (Garzanti, Milano, 1957) e "La religione del mio tempo" (Garzanti, Milano, 1961) entrambe ristampate da Nuova edizione Einaudi di Torino nel 1982.

«Le cose stavano a questo punto quando Pasolini scrisse Le ceneri di Gramsci, La religione del nostro tempo, Ragazzi di vita, Una vita violenta e esordì nel cinema con Accattone. In quel periodo, che si può comprendere tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, Pasolini riuscì a fare per la prima volta nella storia della letteratura italiana qualche cosa di assolutamente nuovo: una poesia civile di sinistra». Così scrisse il suo grande amico, lo scrittore Alberto Moravia, nell'articolo "Ma che cosa aveva in mente?", pubblicato su L'Espresso il 9 novembre 1975.

"La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974", Einaudi, Torino, 1975; Collana Gli struzzi n.243, Einaudi, 1981), fu l'ultima produzione poetica pubblicata in vita. Scrisse e diresse film fino alla fine. "Petrolio" fu l’ultimo romanzo rimasto incompiuto a causa della morte e pubblicato solo nel 1992 con i caratteri di Einaudi. Il suo ultimo film, discusso, censurato e dibattuto recava il titolo “Salò o i 120 giorni di Sodoma” e vide la luce proprio nel 1975. Su impulso del circolo del cinema Cesare Zavattini, il cine teatro Odeon di Reggio Calabria, nel 2015, in occasione dei 40 anni della scomparsa di Pasolini, è stata l’unica cornice calabrese della proiezione della versione curata dalla cineteca di Bologna di questa pellicola, premio Miglior film restaurato alla 72^ edizione del Festival di Venezia.

Ambientato sotto il regime fascista, “Salò o i 120 giorni di Sodoma” si ispirò al romanzo incompiuto di Donatien Alphonse Francois De Sade. Pasolini ritrasse in esso, con immagini esplicite e brutali, gli effetti peggiori (“l’universo orrendo”) producibili dalla dittatura assoluta del potere sul genere umano, attraverso il racconto dissacrante della deriva discendente dalla mercificazione del corpo e dall’uccisione della coscienza. Una denuncia violenta e profetica affidata ad un film divenuto il suo testamento, che sfidò, e ancora oggi sfida, il comune senso del pudore per denunciare l’ipocrisia e invocare l'urgenza di ricercare un'etica dispersa.

«Pasolini aveva scoperto molto presto che la ragione non serve, ma va servita. E che soltanto le contraddizioni permettono l'affermazione della personalità. Ragionare è anonimo, contraddirsi, personale. (...) La sua fine è stata al tempo stesso simile alla sua opera e dissimile da lui. Simile perché ne aveva già descritto nei suoi romanzi e nei suoi film, le modalità squallide e atroci. Dissimile perché egli non era uno dei suoi personaggi bensì una figura centrale della nostra cultura, un poeta che aveva segnato un'epoca, un regista geniale, un saggista inesauribile», scrisse ancora l'amico Moravia nel suddetto articolo.

Io so ma non ho le prove

Indipendente e perspicace, pungente e controcorrente, fu intellettuale di spessore, noto in ambito internazionale, apprezzato ma anche osteggiato e contrastato, capace di forte senso critico e di ascolto di una coscienza vigile. Paradigmatico l'attacco del suo articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 14 novembre 1974 con il titolo "Cosa è questo golpe? Io so".

«Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe"istituitasi a sistema di protezione del potere).Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.

Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.

Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti.

Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974)...

(...) Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, chemette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere.

(...)Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi. Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.

A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme,non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale. Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi (...)». 

Il suo acume intellettuale fornisce, a distanza di decenni, chiavi di lettura su eventi cardine della storia Repubblicana come l'omicidio di Aldo Moro, grande statista divenuto un simbolo, dunque sacrificabile sull’altare della “ragion di Stato”. Lo scrittore siciliano di Racalmuto, Leonardo Sciascia, nell’estate del 1978, condusse a caldo e pubblicò un’analisi di quegli avvenimenti ne “L’Affaire Moro”, leggendo le tante discusse lettere scritte dalla prigionia. Si affidò in apertura alle parole di Pier Paolo Pasolini.

A metà degli anni Sessanta, Pasolini (“Empirismo eretico”) aveva infatti definito Aldo Moro “il meno responsabile” delle colpe per le quali la DC avrebbe dovuto essere sottoposta a processo, ma ne aveva anche criticato il linguaggio. Nell'agosto del 1975, pochi mesi prima del suo brutale assassinio, Pasolini aveva scritto che «Andreotti, Fanfani e Rumor, e almeno una dozzina di altri potenti democristiani, dovrebbero essere trascinati sul banco degli imputati. E quivi accusati di una quantità sterminata di reati: indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, collaborazioni con la Cia, uso illegale di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto incapaci di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell'Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani, responsabilità dell'esplosione "selvaggia" della cultura di massa e dei mass-media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione. Senza un simile processo penale, è inutile  sperare che ci sia qualcosa da fare per il nostro Paese. E' chiaro infatti che la rispettabilità di alcuni democristiani (Moro, Zaccagnini) o la moralità dei comunisti non servono a nulla». Il film di Tullio Maria Giordana "Pasolini, un delitto italiano" (1995), richiama l'attenzione proprio su questo brano del suo scritto.

Il suo delitto, un altro 'mistero' italiano

La sua orribile morte resta un mistero come controverse sono state la sua vita e la sua personalità. Nonostante il processo e la condanna definitiva dell’allora diciassettenne Giuseppe Pelosi (libero dal 2009 dopo avere espiato la pena), il senso di verità e giustizia per quanto avvenuto sulla spiaggia dell'Idroscalo di Ostia la notte tra l'1 e il 2 novembre di 45 anni fa, restano lontane e offuscate. Già pochi giorni dopo il delitto, in un'inchiesta pubblicata su L'Europeo, Oriana Fallaci aveva avanzato l’ipotesi di un delitto premeditato al quale avrebbero partecipato anche altre persone.  Lo stesso Pelosi, trent’anni dopo il delitto, ritrattò la sua colpevolezza, confermando le ombre mai dissipate attorno agli accadimenti della notte in cui Pier Paolo Pasolini venne brutalmente assassinato e il suo corpo massacrato. Un incontro di natura sessuale degenerato o forse un complotto politico. Al di là di tutto, l’eredità che lascia Pasolini è immensa, pregna di scritti, poesie, racconti, saggi, film, sceneggiature, editoriali e articoli, traduzioni, persino canzoni, ancora pienamente aderenti alla crisi di allora antesignana di questo tempo, alle contraddizioni dell’umanità, alle derive di cui si è dimostrata capace. Una denuncia morale vera, fondata e necessaria, allora come oggi.

Pasolini e la Calabria

Pasolini ebbe un legame complesso, conflittuale e riappacificato, con la Calabria come testimonia il reportage (“La lunga strada di sabbia”*) pubblicato dalla rivista “Successo” diretta da Arturo Tofanelli nel 1959, realizzato dopo aver attraversato a bordo di una Fiat Millecento la costa italiana fino al Sud. I suoi scritti scatenarono polemiche e risentimenti. Ne seguirono la querela per diffamazione del sindaco di Cutro, Vincenzo Mancuso, per la definizione di 'banditi' riferita alla sua comunità, la corrispondenza chiarificatrice con Pasquale Nicolini, ufficiale sanitario di Paola, il discorso che fece in occasione del premio Crotone che vinse con “Una vita violenta” (fuori dal premio Campiello e dal premio Strega e Viareggio) sempre nel 1959, i set calabresi (a Cutro e a Le Castella proprio nel crotonese) per il film "Il Vangelo secondo Matteo" (1964) in cui recitò anche la giovanissima calabrese Margherita Caruso, la raccolta di testimonianze sui moti di Reggio nella cornice dei fermenti degli anni Settanta per il documentario “12 dicembre” (1971), in collaborazione con i militanti di Lotta Continua.

Un rapporto intenso, ancora da esplorare che affonda le radici anche, alla fine degli anni Sessanta, in quel viaggio coast to coast durante il quale conobbe del Meridione e della Calabria l'arretratezza e l'incontaminazione, l'ignoranza e l'ingenuità, la durezza e la dolcezza - contraddizione rivelata anche dai paesaggi brulli e pertanto affascinanti - e riconobbe in quegli stessi aspetti critici la peculiarità e l'unicità della Calabria. Un viaggio dopo il quale Pasolini definì i cutresi banditi: più che offendere esplicitava una condizione dei calabresi, come spiegò sulle pagine di Paese Sera (28 ottobre 1959): «Anzitutto a Cutro, sia ben chiaro, prima di ogni ulteriore considerazione, il quaranta per cento della popolazione è stata privata del diritto di voto perché condannata per furto: questo furto consiste poi nell’aver fatto legna nella tenuta del barone. Ora vorrei sapere che cos’altro è questa povera gente se non “bandita” dalla società italiana, che è dalla parte del barone e dei servi politici? E appunto per questo che non si può non amarla, non essere tutti dalla sua parte, non avversare con tutta la forza del cuore e della ragione chi vuole perpetuare questo stato di cose, ignorandole, mettendole a tacere, mistificandole».

Risentimento e ostilità si registrarono in Calabria. Per questo, come aiuta a ricostruire il Quotidiano della Calabria (articolo di Roberto Losso del 23 luglio 2012) che ha pubblicato integralmente la corrispondenza, l’ufficiale sanitario Pasquale Nicolini scrisse a Pasolini: «(…)Che il suo sguardo sia stato fugacissimo è provato dalla celerità con cui ha percorso detta strada. Verrebbe addirittura da pensare che da Maratea (che è in Lucania) a Reggio Calabria abbia viaggiato in “turboreattore”, se neppure si è accorto delle belle scogliere di Praia e Scalea, del paradiso di Cirella di Diamante piena di sole, di Belvedere e della sua Rosanville, di Cittadella del Capo semplice e romantica, della mia Paola panoramica e mistica, dello sperone di Tropea, di Bagnara, di Scilla. (….) Così ella ha potuto dare una occhiata di scorcio solo a Reggio ed al resto del litorale jonico. Ma tanto è bastato per farle osservare che Reggio è città estremamente drammatica e originale, di un'angosciosa povertà, dove, sui camion che passano per le lunghe strade parallele al mare, si vedono scritte come “Dio, aiutaci”, che Cutro è veramente il paese dei banditi come si vede in certi westerns (ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi); che ivi si sente che siamo fuori dalla legge o, se non dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, ad un altro livello (…)Ma come ha potuto, signor Pasolini, emettere di tali giudizi sulla base di un rapido colpo d’occhio? Perché, guardi, la Calabria è veramente e dolorosamente povera e depressa, ma che, dai nostri camion gridi la sua invocazione a Dio per non perire, questo no! Anche perché è nella natura di noi calabresi un senso d’orgoglio, direi, smisurato (usi a soffrir tacendo). Ed ora mi levi una curiosità: da che cosa ha potuto dedurre che Cutro è il paese dei banditi? »

Sempre sul Quotidiano della Calabria leggiamo come Pier Paolo Pasolini, in data 1 ottobre 1959 con una “Lettera 22”, rispose:

«Gentile dottor Nicolini, devo dirle anzitutto: i banditi mi sono molto simpatici, ho sempre tenuto, fin da bambino, per i banditi contro i poliziotti e i benpensanti. Quindi, da parte mia, non c’era la minima intenzione di offendere i calabresi e Cutro. Comunque, non so tirare pietosi veli sulla realtà: e anche se i banditi li avessi odiati, non avrei potuto fare a meno di dire che Cutro è una zona pericolosa, ancora in parte fuori legge: tanto è vero che i calabresi stessi, della zona, consigliano di non passare per quelle famose “dune giallastre” durante la notte. Quanto alla miseria, non vedo perché ci sia da vergognarsene: non è colpa vostra se siete poveri, ma dei governi che si sono succeduti da secoli, fino a questo compreso (Governo Segni, ndr). E quanto ai ladri, infine: non mi riferivo particolarmente alla Calabria, ma a tutto il Sud. Sono stato derubato tre volte: a Catania, a Taranto e a Brindisi (sempre nelle cabine delle spiagge). In Calabria ho avuto una rapina a mano armata (di coltello): a cui sono sfuggito solo per la mia presenza di spirito. Queste cose ovviamente non le ho scritte, non solo per senso della litote, ma per non mettere nei guai i miei ladri e i miei rapinatori, che continuano ad essermi simpaticissimi (solo a Taranto, per colpa del bagnino, è intervenuta la polizia: ma io non ho voluto fare la denuncia contro il povero ladruncolo subito ritrovato). Questi sono dati della vostra realtà: se poi volete fare come gli struzzi, affar vostro. Ma io ve ne sconsiglio. Non è con la retorica che si progredisce. Tutto questo lo dico a lei, perché mi sembra una persona veramente buona e simpatica, come i due che ho raccolto per la strada di Cutro, e che infine mi hanno salutato con “umanistica gentilezza”. (….)Mi dispiace dell’equivoco: non si tiene mai abbastanza conto del vostro “complesso di inferiorità”, della vostra psicologia patologica (adesso non si offenda un’altra volta!), della vostra collettiva angesi, o mania di persecuzione. Tutto ciò è storicamente e socialmente giustificato. E io non vi consiglierei di cercare consolazioni in un passato idealizzato e definitivamente remoto: l’unico modo per consolarsi è lottare, e per lottare bisogna guardare in faccia la realtà. Mostri pure questa lettera ai suoi amici, la renda pubblica, magari la faccia anche stampare sui giornali che hanno polemizzato contro di me. Sono certo che sarò capito. Le ripeto: lei è persona degna di ogni rispetto e anche affetto, e, come tale, cordialmente la saluto, suo devotissimo Pier Paolo Pasolini».

Solo pochi mesi dopo Pier Paolo Pasolini tornò in Calabria per ritirare il Premio Crotone assegnatogli dalla giuria composta da Bassani, Gadda, Moravia, Ungaretti e il palmese Repaci per il romanzo “Una vita violenta. Non mancarono neppure allora forti  polemiche. Il premio fu tacciato di politicizzazione e la giuria fu accusata dai democristiani di aver privilegiato un intellettuale vicino al Pci. Al momento di ricevere il premio egli dichiarò: « Sono felice di non avere vinto lo Strega o il Viareggio, perché considero quello che mi avete dato come il più adeguato riconoscimento alla mia opera. I protagonisti del mio romanzo, anche se vivono nella capitale, fanno parte del Mezzogiorno d'Italia, ed è giusto che qui a Crotone, trovino l' esatta comprensione, in una terra giovane, perché nasce ora alla vita sociale, e in modo fresco, genuino, prende coscienza della sua forza, dei suoi bisogni».

In realtà Pasolini, che scrisse con lucida consapevolezza delle periferie e dei diseredati, di una società cieca e alla deriva, non condannò ma parlò con franchezza ai calabresi, con il suo inconfondibile stile pungente e diretto. Della Calabria ebbe poi ancora modo di dire nel 1964 che «il paesaggio calabrese si esalta, con i suoi meravigliosi contrasti naturali, in cui a dolci pendii si contrappongono violenti sbalzi rocciosi (…) In Calabria è stato commesso il più grave dei delitti, di cui non risponderà mai nessuno: è stata uccisa la speranza pura, quella un po’ anarchica e infantile, di chi vivendo prima della storia, ha ancora tutta la storia davanti a sé».

Lo Ionio non è mare nostro: spaventa. Appena partito da Reggio - città estremamente drammatica e originale, di una angosciosa povertà, dove sui camion che passano per le lunghe vie parallele al mare si vede scritto “Dio aiutaci”- mi stupiva la dolcezza, la mitezza, il nitore dei paesi sulla costa. Così fino a Porto Salvo. Poi si entra in un mondo che non è più riconoscibile. Vado verso Crotone, per la zona di Cutro. Illuminati dal sole sul ciglio della strada, due uomini mi fanno cenno di fermarmi. Mi fermo, li faccio salire. Mi dicono - questa è zona pericolosa, di notte è meglio non passarci. Due anni fa, in questo punto, hanno ammazzato a uno, un ricco signore, mentre tornava in macchina da Roma. Ecco, a un distendersi delle dune gialle in una specie di altopiano, Cutro. Lo vedo correndo in macchina: ma è il luogo che più mi impressiona di tutto il lungo viaggio. È, veramente, il paese dei banditi come si vede in certi film western. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi. Si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, a un altro livello. Nel sorriso dei giovani che tornano dal loro atroce lavoro, c’è un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia. Nel fervore che precede l’ora di cena l’omertà ha questa forma lieta: nel loro mondo si fa così. Ma intorno c'è una cornice di vuoto e di silenzio che fa paura».