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di Anna Foti

Con amore e rigore racconta la città calabrese dello Stretto lo scrittore e intellettuale del Novecento, originario di Bovalino, Mario La Cava. A Reggio lo legò, nel tempo, un sentimento crescente e sconfinato al punto di rivendicare per la patria di Corrado Alvaro, Fortunato Seminara e Francesco Perri, un destino di città di cultura e di rara bellezza. Manifesto di questo amore è il volume “Lettere da Reggio Calabria”, contenente foto d’epoca e suoi scritti finora inediti e che il figlio Rocco, che ha in cura un patrimonio di altri elaborati mai pubblicati del padre nell’archivio di famiglia, ha raccolto in questo volume, edito da Nuove edizioni Barbaro, con il saggio introduttivo del critico letterario Giuseppe Italiano. Un vero e proprio omaggio alla città di Reggio Calabria da parte di Mario La Cava e suo figlio Rocco, pubblicato nel 2016.

Una vita trascorsa a vergare quotidianamente la carta con la sua penna asciutta, quasi frammentaria, convinto come era che lo scrittore dovesse rievocare la vita, esprimendo un dato naturale in modo fresco, ingenuo e personale, senza lasciarsi influenzare. La curiosa osservazione per Mario La Cava iniziava dalla sua Calabria e dalla provincia reggina, la sua provincia, con in sé tutto, folklore e grandi sentimenti in un intero mondo in miniatura.

Osservare, scrutare l’animo umano e i luoghi di una Calabria vivida ma anche ruvida. Far parlare il Sud martoriato e straordinario attraverso i suoi contadini, i suoi emigranti, gli ultimi, dar voce a quella terra lontana dai centri editoriali che contavano e che necessitava di un riscatto dalla durezza e dalla crudezza della vita. Questo fece Mario La Cava, nato a Bovalino, nella Locride in provincia di Reggio Calabria, tre mesi prima del sisma che devastò le città dello Stretto, l’11 settembre del 1908 e lì stesso spentosi ottanta anni dopo.

La sua penna scavò dentro la storia, scolpendo sulla roccia pagine dimenticate come quella dei fatti di Casignana ai quali dedicò la rievocazione affidata ai caratteri di Einaudi prima e di Rubbettino poi, con la prefazione del saggista e giornalista Goffredo Fofi. Nel Sud abitato da feudatari per nulla indeboliti e da una plebe ridotta allo stremo, da latifondisti prepotenti e braccianti annichiliti, da proprietari terrieri prevaricatori e contadini sfruttati, da borghesi conservatori e militanti socialisti, nel Sud dei giovani sopravvissuti alla Prima e sanguinosa Guerra Mondiale e tornati al nulla da dove erano stati prelevati, nel Sud delle famiglie segnate da lutti e mancanza di lavoro e futuro, nel Sud della miseria e dello sfruttamento che popolavano le campagne unitamente alla fatica e al sudore privi di qualunque prospettiva. In questo Sud, in questa Calabria irruppero il sentimento di giustizia denegata e di ribellione verso un potere che aveva tradito ogni aspettativa post bellica, ogni speranza del popolo. In questa Calabria, espressione di questo Sud tormentato, il 22 dicembre 1922, a poche settimane dalla marcia (armata) su Roma che il 28 ottobre di quell'anno aveva sancito l'ascesa al potere del partito Nazionale Fascista guidato da Benito Mussolini nel regno d'Italia, a Casignana, comune confinante con la Bovalino di Mario La Cava, si consumò un massacro insabbiato dalla Grande Storia e che la Letteratura di impegno Civile ha restituito alla memoria collettiva. Luigi Nicita, affittuario della Foresta Callistro feudo dei principi Carafa di Roccella che in forza del decreto Visocchi avrebbe dovuto rendere la terra ai contadini organizzati per coltivarla, con la complicità del corpo di polizia, dei carabinieri e dei fascisti, fece sedare nel sangue la resistenza dei braccianti. Costoro avevano occupato pacificamente le terre ancora trattenute in una condizione di feudo, in barba ad ogni legge. Furono sparati oltre cento colpi di arma da fuoco, nonostante quelle rivendicazioni fossero sostenute dai borghesi illuminati come il medico Filippo Zanco e il brigadiere Colombo, dal sindaco di Casignana Francesco Ceravolo (rimasto ferito), e dal vicesindaco Pasquale Micchia, tra le vittime degli spari. Ad osteggiare questi fermenti di libertà dalla misera e dal gioco della sottomissione sociale, i latifondisti abbarbicati alle terre e al potere che essere garantivano e la tracotanza di don Luigi Nicota.

Un strage che si consumò nel silenzio di un regime già forte e dittatoriale.

Già da tre anni era in vigore la legge Visocchi (regio decreto legge 2 settembre 1919, numero 1633) emanato dal governo presieduto da Francesco Saverio Nitti, su proposta del ministro dell'agricoltura Achille Visocchi, finalizzato all'incremento della produzione agraria attraverso l'attribuzione ai prefetti della facoltà di assegnare in occupazione temporanea terreni incolti o mal coltivati a contadini organizzati in associazioni o enti agrari legalmente costituiti. Il decreto prevedeva anche un'estensione a tempo indeterminato della concessione per i terreni con obbligo di bonifica o che richiedessero cambiamenti di coltivazioni.

In base al decreto Visocchi, i contadini di Casignana avrebbero ricevuto la Foresta Callistro, feudo dei principi Carafa di Roccella, data in custodia a Luigi Nicita. Ma qualcuno non era d'accordo e osteggiò, con violenza e con la complicità del potere, le legittime rivendicazioni dei braccianti.

«Spararono, atterriti dai loro stessi spari, e del popolo che contrastava molti caddero, altri fuggirono inseguiti dalle pallottole.

Qua e là dai punti nascosti, qualche pietra veniva ancora lasciata e cadeva in mezzo ai carabinieri meravigliati di essere rimasti incolumi da quella che a loro pareva essere stata una grande battaglia.

Il vicecommissario cavalier Bossi si era abbassato tra le gambe dei suoi carabinieri e si era salvato meglio di tutti. Si alzò, finita l'azione, e ordinò ai suoi uomini di raccogliere morti (tre) e feriti (sei). La giornata era stata consacrata alla storia».

Il volume "I fatti di Casignana", presentato a Reggio Calabria lo scorso gennaio presso la sede del Rhegium Julii in occasione dell'iniziativa congiunta dello stesso circolo reggino, del circolo Guglielmo Calarco e del Caffè Letterario Mario La Cava e alla quale ha preso parte Marco Gatto, docente di Teoria della Letteratura all’Università della Calabria, costituisce un contributo prezioso alla storia delle lotte contadine al Sud. Gianni Carteri, autore di saggi, scrittore e studioso fine e arguto che rese un costante e appassionato tributo alla Calabria, alle sue bellezze, ai suoi luoghi e ai suoi scrittori tra cui Mario La Cava, nel volume "Come nasce uno scrittore. Omaggio a Mario La Cava” (Città del Sole edizioni 2011) ha sottolineato il valore dell'opera riportando il seguente autorevole commento di Pasquino Crupi: «Mario La Cava - ecco la novità - scrive il primo romanzo organico sulle masse contadine che si caratterizzano come classe antagonista all'intero sistema feudale del medioevo barbarico del Mezzogiorno sopravvivente, con tutti i suoi ingranaggi crudeli, fino agli inizi del '900 e un pò oltre. E queste masse rappresenta senza intenzioni apostoliche e banditrici, partendo di dentro della loro condizione, penetrando nel profondo, scavando anche e confermando, con il portarla ad una dimensione diversa, la sua qualità di scrittore, che è quella dell'ingegnere di anime. Qui siamo alla psicologia delle masse, in tutte le sue latitudini, che non ha nulla da spartire con lo psicologismo, già brutta bestia nera di Elio Vittorini».

"I fatti di Casignana" di Mario La Cava arricchiscono l'opera già avviata da altri importanti intellettuali meridionali, come l'altro calabrese Francesco Perri, il lucano Rocco Scotellaro e i maestri siciliani Leonardo Sciascia, Giovanni Verga. La Cava nel 1974 pubblicò, infatti, con Einaudi “I Fatti di Casignana”, poi nuovamente dato alle stampe nel 2019 da Rubbettino. Prima di lui, nel 1954 Rocco Scotellaro aveva scritto "I contadini del Sud", nel 1950 era stato pubblicato postumo "Le terre del Sacramento" (Premio Viareggio) del molisano Francesco Jovine e nel 1925 Francesco Perri aveva pubblicato “I Conquistatori” con Libreria Politica Moderna. Nel 1945 il volume, firmato con lo pseudonimo Paolo Albatrelli, era stato nuovamente edito da Garzanti e infine nel 2012 da Laruffa. Mario La Cava dedicò proprio a Francesco Perri questa preziosa ricostruzione storica dei fatti di Casignana, considerando "I conquistatori" come primo esempio di romanzo sui conflitti sociali in Italia e Francesco Perri come ispiratore delle sue prime passioni civili.

Ai fatti di Bronte e a quei primi ardenti dieci giorni di agosto del 1860 in Sicilia, ancora prima, erano state dedicate la novella “Libertà” (da “Novelle Rusticane” 1883) di Giovanni Verga e la raccolta di saggi “La corda pazza” (1970) di Leonardo Sciascia, anche co-sceneggiatore del film diretto nel 1972 da Florestano Vancini, intitolato proprio “Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato”.

Uomo che visse il suo tempo e che si addentrò anche nella storia della sua Terra, Mario La Cava coltivò profondamente pure il legame con Reggio Calabria, e non solo nel frangente delle scuole negli anni Venti. Frequentò il liceo classico come contribuisce a ricostruire il volume il “Diario e altri scritti” della madre Marianna Procopio. La sua adolescenza nella città calabrese dello Stretto, come ricostruito nel volume “Lettere da Reggio Calabria”, ispirò il suo primo romanzo “Mimi Cafiero” poi pubblicato nel 1959 con i caratteri di Parenti a Milano e poi rieditato nel 2006 dalla Rubbettino nella collana “Scrittori di Calabria”. A Reggio tornò anche nel 1942 e ne tratteggiò così la trasformazione.

«Avevo passato tanti anni a Reggio Calabria; la mia adolescenza era trascorsa in quella città, io sapevo la bellezza dei panorami, la modernità delle costruzioni, e mai mi era venuto in testa che fosse una città felice. Trasportavo le mie passioni, la mia febbre di vita nei luoghi e, così com’era il mio animo, li trovavo tristi pur nella loro bellezza, aridi e vuoti. Quelle architetture baroccheggianti, io le avevo sul cuore con tutto il loro peso, quei vecchi signori annoiati che incontravo sul corso mi angustiavano con tutta la loro grigia e desolata presenza.

E invece in questa primavera la città s’era aperta alla mia comprensione con una voce gentile, amabile e persino solenne che io non le sospettavo.

 (…)Siamo ora in tempo di guerra, la notte, la città immersa nel buio rotto a tratti dalle luci dei riflettori che scrutano il mare. Eppure il vento fresco della sera che ci alita all’intorno, ci accarezza con una voluttà che fa pensare alle cose più belle della vita e ci conforta nella fede e nella speranza».

Tornò a Reggio Calabria da giornalista, ruolo che, secondo Giuseppe Italiano, Mario La Cava visse con “atteggiamento sobrio e puntuale dell’intellettuale affidabile che risponde alle richieste dei direttori di giornali con umiltà, senza tradire le specifica sua natura di scrittore. E il suo articolo non è mai malato di precarietà, di effimera consistenza, mai invalidato dal tempo, com’è presumibile che possa accadere per i pezzi destinati ai giornali”.

La pubblicazione “Lettere da Reggio Calabria” è in realtà il frutto dello sguardo critico, ed al contempo innamorato e incantato, di Mario La Cava sulla città di Reggio che lo accolse giovanissimo, per poi vederlo andare e ritornare; in questo viaggio dal centro della città alla periferia della provincia, egli si ritrovò continuamente ispirato. Si tratta di alcuni scritti impreziositi da foto d’epoca, immagini della Reggio che fu, e di una ricca appendice di corrispondenze affabili tra Mario La Cava e autorevoli personalità culturali della Reggio del Novecento tra cui i poeti Nicola Giunta, Matteo Paviglianiti e Franco Saccà, lo scrittore Antonio Piromalli, i pittori Nunzio Bava e Nik Spatari, il sovrintendente Giulio Iacopi, lo storico Gaetano Cingari, l’avvocato Guglielmo Calarco, il giornalista Giuseppe Malara e il presidente del circolo Rhegium Julii Giuseppe Casile.

Il saggio introduttivo di Giuseppe Italiano apre il viaggio tra gli scritti finalmente fuori dall’archivio di famiglia che rendono omaggio all’amore di un cittadino calabrese e intellettuale italiano per la città in punta allo Stivale. “Sguardo sulla Calabria” (1939) è, non a caso, il primo scritto che apre la pubblicazione degli inediti. In esso Mario La Cava si abbandona a descrizioni assai suggestive del suo Aspromonte, del suo mare, dei suoi uliveti e dei suoi aranceti prima di  “Reggio Calabria” (1942) in cui trionfano la bellezza e la memoria.

«Ci accorgiamo qui che la gaia festosità di una natura esuberante, di una natura nella quale gli aranceti fioriscono fino sull’onda del mare, di una natura ricca di colori che già fecero fantasticare gli antichi, si unisce alla virtù civica e militare, al carattere fiero e eroico. E ci ricordiamo di Ibico, il grande poeta greco di Reggio che nei suoi inni corali, cantando le glorie della sua terra, gli eroismi insuperati e le virtù di tutto un popolo, insinua la dolce voluttà, l’armonia di un idillico mondo felice».

Reggio Calabria è capitale culturale nel terzo scritto di La Cava – Dionisio  interpellato per scrivere un “Orecchio” (1942) dalla città culturale per la rivista quindicinale “Primato” diretta da Giuseppe Bottai e Giorgio Vecchietti. Il volume comprende la prima versione, più estesa e rimasta inedita fino ad oggi. Tra le sue parole albergano tanti nomi di illustri reggini tra cui il bibliotecario Luigi Aliquò Lenzi, il direttore e fondatore della scuola d’arte Alfonso Frangipane, i poeti Francesco Sofia Alessio e Napoleone Vitale, il provveditore Luca Pignato, i professori Nicola Putortì e Tito Lucrezio Rizzo. Nello scritto del 1953 “Come funziona la zona industriale di Reggio Calabria”, c’è spazio per un La Cava satirico che tratteggia il miraggio dell’industrializzazione rimasto tale per oltre un secolo, fino ai giorni nostri, con l’amarezza di aver compreso agli albori che per quell’illusione anche la risorsa dell’agricoltura sarebbe andata dispersa. Voce al mito e alla suggestione che aleggiano nello Stretto, tra Reggio Calabria e Messina, nello scritto “Storie di verità e leggenda della Fata Morgana”. Un trittico segna la fine del viaggio. Nel 1954 scrisse “Reggio c’era”, “Fisionomia di una città” e “La cultura a Reggio Calabria” dove La Cava si sofferma nuovamente sulla dimensione culturale di Reggio attraverso la fioritura di riviste e quotidiani (“L’airone”, “La zagara”, “Procellaria”, “Voce di Calabria” all’epoca l’unico in regione, “Il popolo di Reggio”, “Hipponion”, la “Nuova Calabria”, “Il piccolissimo”).

«Reggio Calabria si è avvicinata sempre più agli interessi della cultura nazionale, senza per questo perdere la sua caratteristica di misura e di saggezza ereditata dagli antichi. Si respira qui aria dei tempi greci e non occorre andare al museo nazionale per raccogliere l’arcano profumo».

Come fotografie d’epoca, questi scritti di Mario La Cava riportano indietro nel tempo e offrono una chiave di lettura del presente, fermando le bellezze come i fallimenti della storia e restituendoci una città che, nonostante tutto, deve ancora esprimere il suo meglio. Quel destino di grande città per Reggio Calabria non è ancora compiuto.

«Ma è soprattutto d’inverno, quando molte regioni sono oppresse da un cielo plumbeo in cui il sole sembra aver abbandonato la terra, che al confronto la nostra regione diventa un soggiorno particolarmente beato. Poco tempo dura la pioggia e poi, nei mesi più fieri dell’inverno cattivo, splende abbagliante il sole più puro. Con esso la vita dura e il dolore sembrano un ricordo lontano».

Amico fidato del grande siciliano Leonardo Sciascia (di poco più di dodici anni più giovane), Mario La Cava esplorò la sua dimensione di scrittore dalla periferia nella fervida corrispondenza intrattenuta con lo scrittore siciliano (“Mario La Cava - Leonardo Sciascia, Lettere dal centro del mondo 1951-1988” a cura di Milly Curcio e Luigi Tassoni, Rubbettino, 2012); un carteggio di trecento pagine, un tributo di amore ad un Sud ingrato che La Cava non ha mai smesso di narrare con “pungente candore”. Ad accomunare i due scrittori meridionali, nella seconda metà del Novecento, gli anni del boom economico ma anche la passione per la scrittura e la narrazione nutrita di solitudine e della ricerca del riscatto dall’isolamento.

Da una periferia ad un’altra, tra la Calabria e la Sicilia, nel carteggio scandito da oltre 360 lettere che li ha a lungo legati l'uno all'altro, gli scrittori approfondirono la loro amicizia, lasciando un ricco epistolario lungo quarant’anni fatto di lettere e pensieri, letteratura e vita. Leonardo, scrittore ancora non famoso, dalla sua Racalmuto scrisse per primo a Mario, residente a Bovalino e già noto negli ambienti culturali, per apprezzare la sua opera. E da lì fu un crescendo. L’intenso scambio epistolare, dipanatosi tra il 1951 e il 1988, anno in cui La Cava scrisse l’ultima lettera, è stato pubblicato nel 2012 con il titolo “Lettere dal centro del mondo” che racchiude lo spirito dei due scrittori in un Sud in cui già il malaffare proliferava, un Sud nel quale entrambi restarono per scrivere, denunciare, impegnarsi, amare la terra di origine e lottare per essa. I Sud di Racalmuto e Bovalino divennero partenza e approdo di un crocevia di pensieri, riflessioni sulla scrittura, il tutto intriso di un profondo sentimento di amicizia. Il caffè letterario Mario La Cava a Bovalino alcuni anni fa ha dedicato un incontro a questo significativo rapporto epistolare, affidandone il racconto al giornalista vice caporedattore del Tg2, uomo di lunga militanza radicale, Valter Vecellio.

Sempre alla ricerca di un ‘altrove felice’ che trovò anche a Reggio, Mario La Cava si sentiva esiliato nella sua Bovalino e tuttavia lì vi trascorse quasi tutta la sua vita trovando ispirazione per la sua scrittura e il suo contributo alla letteratura che, come la poesia, è alimento per l’anima. Per lui l’amore è un’illusione, un sogno vitale e la vita è un mistero che non sa decifrare e non sa capire, essa è un esercizio di resistenza, soprattutto nella sua Calabria ai cui ultimi, con tutto sé stesso, ha sperato di aver dato una voce.