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Ci sono storie che in realtà non hanno una fine precisa perché, nelle pieghe inattese, miracolose e straordinarie della vita, sanno reinventarsi, continuando a dire qualcosa al mondo e a testimoniare la speranza, anche in un orrore senza fine come fu la Shoah.

Nel campo di sterminio di Auschwitz I, nella città polacca di Oswiecim, oggi museo statale e dal 1979 patrimonio Unesco, una cartina fotografa la provenienza dei convogli verso le camere a gas. C’è anche l’Italia con le sue  città di partenza Fossoli, Bolzano, Verona, Trieste, Roma. Ci sono anche i dati con il numero di ebrei deportati all’inferno, partiti da diversi paesi europei: Ungheria (430 mila ebrei); Polonia (300 mila); Francia (69 mila); Olanda (60 mila); Grecia (55 mila); Boemia e Moravia (46 mila); Slovacchia (27 mila); Belgio (25 mila); Austria (23 mila); Yugoslavia (10 mila); Italia (7mila e 500); Norvegia (Seicentonovanta).

C’è anche l’Italia, dunque, tra i paesi che hanno contribuito all’orrore e che ora contribuiscono alla salvaguardia del presidio di Memoria, come impresso sul marmo all’ingresso del campo. Nessuna indulgenza, dunque, dovrebbe essere ammessa per il Belpaese, fosse stata anche una sola la vittima fatta uscire dai confini con quella destinazione infernale.

Il dramma degli ebrei, in proporzione alla comunità residente in Italia in quel momento storico, non è stato infatti da meno. Lo sanno bene gli ebrei che c’erano e che sono sopravvissuti; gli ebrei che hanno vissuto in Italia la persecuzione. Tra loro ci fu anche Gustav Brenner, viennese, nato da Joseph Brenner e Philippina Binder durante la Prima guerra mondiale. Ebreo in fuga dalla persecuzione di Hitler, durante il secondo grande conflitto, lui era un libraio editore in Praterstrasse, al servizio delle altrui parole e dell’importanza di tramandarle.

Dopo essere stato arrestato ed internato a Buchenwald e poi trasferito a Dachau, dove visse l’esperienza terribile di una prigionia dura e particolarmente dolorosa, attraversò in fuga l’Europa e arrivò in Italia. Dopo essere passato da Trieste, cercò e trovò rifugio a Milano, ma negli anni Quaranta anche in Italia gli ebrei non erano più al sicuro. Lo spietato disegno di affermazione della supremazia ariana di Hitler non ebbe tregua e quell’assurda condanna lo raggiunse anche qui, dove le leggi per la difesa della razza – così vennero chiamate nonostante la razza umana sia unica e indivisibile - divennero vigenti già nel 1938. 

Anche qui in Italia, al momento del nuovo arresto e della deportazione, dovette lasciare il suo lavoro presso la casa editrice di un amico di Milano. La destinazione fu quella del campo di internamento calabrese di Ferramonti di Tarsia, a Cosenza.

Qui in Calabria, ancor prima che ciò potesse anche solo essere immaginato, Gustav Brenner, ebreo austriaco ai tempi di Hitler, adottato da questa terra mentre dall’Italia altri venivano deportati e in Europa altri venivano sterminati, cominciò a scrivere la sua nuova storia. 

Nel campo calabrese egli conobbe ancora, anche se non con i tratti violenti e ignobili delle esperienze vissute nei campi nazisti, il dolore dell’internamento e dello sradicamento dalla propria vita personale e professionale, la malaria, il freddo, gli stenti e la paura dei bombardamenti e del futuro. In questa terra, tuttavia, il suo destino volse alla vita e non alla morte, come ci si sarebbe potuti aspettare. 

Il campo di internamento di Ferramonti era certamente un luogo di prigionia concepito e realizzato per internare uomini, donne e bambini di origine ebraica e non solo. Circondato dal filo spinato e sottoposto a ferreo controllo militare, tuttavia, il campo riservò agli internati condizioni di vita che mai raggiunsero gli estremi di disumanità raccontati con riferimento ai campi nazisti.

Erano molte le attività svolte e tanti furono anche gli spettacoli e i concerti che gli stessi internati animarono. Lì, dentro, gli uomini, le donne e i bambini potevano consolarsi scrivendo, disegnando e suonando. Di storie di questo respiro ve ne furono, nonostante il dramma della persecuzione, anche in alcuni ghetti in Europa. Spesso erano storie clandestine. 

Furono celebrati al suo interno anche dei matrimoni e vi furono anche delle nascite, consentite nei campi di sterminio nazisti soltanto dopo la fine della guerra.

Nessun atto di crudeltà fu mai attribuito a chi ha comandato a Ferramonti, a chi ha controllato la vita degli internati: il direttore Paolo Salvatore, il commissario di Pubblica Sicurezza, il frate cappuccino Callisto Lo Pinot, il rabbino Riccardo Pacifici – a cui è intitolata la via del museo della Memoria di Ferramonti –  e il comandante, di origini reggine, Gaetano Marrari. Nonostante il contesto di restrizione, l’osservanza delle leggi del regime e un progetto di imprigionamento e isolamento degli ebrei cui il campo era innegabilmente strumentale, per quanto fosse rimesso ai loro comportamenti, essi nutrirono rispetto verso le persone mentre intorno c’erano guerra, orrore, violenza e morte.  

Il campo sorgeva vicino alla vecchia stazione ferroviaria della linea Cosenza – Sibari dove sostavano i convogli, nella valle del fiume Crati. Anche in questo caso la presenza di un nodo ferroviario fu condizione privilegiata per la scelta del luogo dove far sorgere il campo, al fine di agevolare l’arrivo di grandi gruppi di persone da internare. Lo stesso criterio guidò la scelta delle caserme prebelliche di Oswiecim al momento di allestire il campo di Auschwitz I in Polonia. A Birkenau i binari furono ‘portati’ fino a dentro il campo e ancora oggi attraversano quella sconfinata distesa, dove un tempo sorgevano infinite file di baracche in mattone e in legno.

Da Ferramonti tuttavia non partirono mai convogli per Auschwitz. Un caso? Nessun ordine mai arrivato? Una posizione geografica decentrata rivelatasi salvifica? Qui si moriva quasi sempre per malattia, per via dell’accentuato fattore malarico della zona (individuata per ospitare il campo anche per questo), mai per aggressioni, omicidi arbitrari o fucilazioni di massa. Senza nulla togliere alla drammaticità dell’imprigionamento, in qualunque luogo esso sia avvenuto, come atto consequenziale ad una persecuzione in nome di origini definite ‘inferiori’, va evidenziato che per molti essere internato a Ferramonti, piuttosto che in un altro campo italiano o europeo, fece la differenza. Cambiò il loro destino.

Il campo, allestito su disposizione del regime fascista, entrò in funzione nel giugno del 1940. Fu il primo campo ad essere liberato dagli alleati, il 14 settembre 1943, e l’ultimo ad essere chiuso l’11 dicembre 1945. Molti, non avendo dove andare, restarono lì per qualche tempo, anche dopo la liberazione.

Nel campo di internamento di Ferramonti di Tarsia, dal 2004 un museo gestito dall’omonima fondazione, furono internati migliaia di ebrei e cristiani, italiani e stranieri, ebrei, antifascisti ed oppositori politici comunisti, non solo italiani ma anche greci e slavi, apolidi.  Molte professionalità in tanti settori si ritrovarono e alimentarono anche gli intensi scambi che vi furono tra gli internati e la comunità di Tarsia.

Per loro vi era infatti la possibilità di uscire, scortati dai militari, per acquistare derrate alimentari che sarebbero servite per la vita dentro il campo. Fu proprio durante una di queste uscite che il destino di Gustav Brenner si legò a doppio filo alla Calabria.

Conobbe a Roggiano Gravina colei che sarebbe diventata sua moglie, Emilia Iaconianni, donna volitiva e anticonformista che sposò nel 1947 e con cui, a Cosenza, dopo la liberazione ufficiale del campo aprì una libreria, nel 1950 divenuta La casa del Libro. Tutto iniziò con una biblioteca circolante, per favorire il prestito di libri a chi non avesse potuto permettersi di acquistarli. Il progetto crebbe nel tempo e oggi le Edizioni Brenner di Cosenza, curate dal figlio Walter che custodisce e tramanda questa eredità familiare, hanno all’attivo più di quattrocento pubblicazioni, solo negli ultimi trenta anni, nei settori più diversi. Anche la sorella di Walter, Pina si è affermata nel mondo dell’arte con importanti riconoscimenti in terra bruzia.

Gustav Brenner morì giovane nel 1974, certamente anche per gli stenti e le sofferenze patiti in quegli anni. Aveva solo 58 anni. In Calabria è rimasto e ha offerto molto in termini di umanità e di valorizzazione della cultura attraverso i libri, ostinati custodi del sapere a beneficio del prossimo.

Il figlio di Gustav Brenner, Walter è anche lui un librario ed editore che dal padre ha ereditato la memoria della persecuzione, di Ferramonti e della rinascita in Calabria nel segno della passione per i libri. La sua è anche un’instancabile testimonianza di resistenza ad una tendenza eccessivamente semplificatrice e spesso auto – assolutoria e pacificatrice che il nostro paese asseconda quando si parla di Storia e di Shoah. “Credo che l’Italia – ha affermato Walter Brenner – non abbia fatto onestamente e pienamente ancora i conti con la storia scomoda della persecuzione degli ebrei scritta sul suo territorio; credo, infatti, che questa sia una storia da conoscere senza sconti, mistificazioni o infingimenti, illuminando le zone lasciate in ombra. Oggi viviamo un’epoca in cui esplorare e guardare in faccia gli abissi neri, in cui l’animo umano ha dimostrato di poter cadere con conseguenze gravissime, non è più differibile”. 

L’istituzione della Giornata della Memoria nel 2000 è funzionale anche a questa conoscenza e alla consapevolezza di ciò che anche l’Italia, alleata e poi occupata, è avvenuto. Le leggi per la difesa della razza, dunque leggi ‘razziali’ e razziste per definizione, emanate dal regime fascista, arrivarono prima dell’inizio della guerra (1938) e, restando in vigore fino al 1944, vennero pienamente applicate con arresti in tutta Italia. Il campo di Ferramonti venne costruito appositamente per la detenzione di un’umanità destinata ad essere cancellata, secondo il disegno di Hitler. La storia poi ha riservato degli epiloghi inattesi. Diversi e più umani. Ma le premesse e, per certi aspetti, lo svolgimento del progetto, anche in Calabria non erano più confortanti che in altri luoghi d’Italia e d’Europa.

“Nel campo italiano di Ferramonti, vi fu senza dubbio una differenza sostanziale – ha spiegato Walter Brenner– rispetto alle brutalità e allo sterminio praticati negli campi di concentramento nazisti. Nessuna spregevolezza o crudeltà da parte di coloro che comandarono, comunque, restando espressioni di un regime e dunque osservanti delle leggi per la difesa della razza, alle quali si attennero con tutta l’umanità possibile. Durante una persecuzione ingiusta, pur se imposta dalla legge – ha proseguito Walter Brenner – Marrari e Salvatore furono certamente uomini distintisi per la loro capacità di comportarsi con umanità e rispetto della dignità, nonostante l’esperienza dell’internamento. Questo, tuttavia – ha sottolineato Walter Brenner – non deve sminuire il dramma di chi ha sofferto la prigionia e la negazione di identità o fungere da giustificazione per azioni che comunque hanno reso prigioniere delle persone, le hanno isolate dopo averle sradicate dalla loro vita e private di tutti i loro beni. Mio padre fu arrestato a Milano, poi fu deportato a Ferramonti. Questa, anche, fu la sua storia. Ho sentito parlare dell’episodio della bandiera gialla, simbolo dell’epidemia di colera, issata da comandante Marrari solo per sventare l’ingresso dei nazisti nel campo. Questo atto certamente segna uno scatto di dignità e coraggio encomiabili. Va detto anche che, al di là delle posizioni ufficiali – ha evidenziato Walter Brenner – furono tanti gli italiani capaci di gesti nobili e coraggiosi, in grado anche in guerra e in dittatura di scegliere il bene”.

Le tracce e le testimonianze che resistono al tempo e all’oblio sono importanti perché consentono di conoscere ogni voce della storia. Anno dopo anno si contano sempre meno sopravvissuti e avanza lo spettro della dispersione del ricordo e della consapevolezza di un orrore che, senza più memoria, ucciderebbe ancora.

Proprio per riscattare quello che, le leggi in Austria prima e in Italia dopo, gli avevano tolto, per rivendicare il diritto a ri-esistere e a resistere, Gustav Brenner è rimasto in Calabria. “Qui c’era tanto da ricostruire – ha spiegato il figlio Walter - e mio padre qui ha ricominciato la sua vita personale, familiare e professionale, ha dato nuovo respiro alla sua identità così ingiustamente soffocata, contribuendo anche alla conoscenza della storia calabrese, soprattutto quella sottaciuta. Accogliendo la sfida di un analfabetismo dilagante – ha raccontato Walter Brenner – mio padre è partito proprio da qui, dalla conoscenza della lingua e della storia della Calabria, per poi spaziare anche oltre i confini regionali. Si è occupato anche di recupero dei libri antichi e rari, essendo stato tra i pionieri della tecnica anastatica strumentale alla loro divulgazione. Solo con la consapevolezza, con la cultura si può costruire qualcosa di buono, questa è stata la sua ispirazione e oggi è anche la mia. La vita di papà si legge come vita di speranza – ha concluso Walter Brenner  - la mia come vita di testimonianza affinchè Ferramonti sia presidio indistruttibile della Storia e della Memoria di ciò che è stato, senza edulcorazioni”. A questa missione contribuiscono i libri che raccontano la storia di tutti noi.