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Categoria: Carta bianca
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di Natale Pace

“… Mostra il non-sense cui gli uomini si condannano attraverso il proprio linguaggio vuoto, sciocco, o a volte mostruoso, e lo fa per scolpire un nuovo linguaggio, pregno, scandito, completamente vero, tutto in bilico nel nulla, però mai di quel nulla partecipe, impossibilitato a precipitarvi, acrobata sulla propria sottigliezza, sul patto che ha stabilito col lettore, con la letteratura, con la propria storia … le parole ci servono per costruirci, costruire a noi stessi, case: parole che corrodono…” (Marco Bruno – Ewa Lipska, la discreta amante delle parole – su Poesia n.349)

Per aprire la “mia” riflessione su René Corona (mia nel senso che a sbagliare si fa sempre in tempo e me ne assumo ogni relativa responsabilità), prendo a prestito il bellissimo studio di Marco Bruno sulla poesia di Ewa Lipska, polacca di Cracovia, pubblicato qualche mese fa dalla rivista Poesia.

Ma perché tale io vedo (e leggo) René Corona: un irruento costruttore di parole. René Corona è un acrobata che ha un senso solo lassù, sospeso nelle altezze; a vederlo sulla terraferma, come dice una famosa canzonetta, ti sembra un essere senza senso. A parlarci ti ritrovi dentro le forme amorfe, tra le miscele di colori di un quadro di Vasilij Vasil'evič Kandinskij, come in un labirinto dentro il quale ti crogioli, ci stai divinamente bene e non ti passa neppure per l’anticamera del cervello di cercare la via di uscita.

E’ un francese importato in Italia, Renè (Renato) Corona, nato a Parigi il 23 novembre 1952 e capitato per motivi di lavoro in Calabria dove appena trentacinquenne si trasferisce e fino al dicembre 2005 presta servizio presso la scuola Superiore per Mediatori Linguistici (ex Scuola Superiore Linguistica per Interpreti e Traduttori) di Reggio Calabria, come Esperto Linguistico.

Dalla Calabria e dal suo mare, da lui tanto amato, non se ne andrà più. Oggi vive a Bova Marina e sulle navi traghetto gode le sponde odissee dello Stretto, nei continui spostamenti a Messina dove ricopre l’incarico di docente di Lingua e traduzione francese, presso il Dipartimento di Scienze cognitive, psicologiche, pedagogiche e degli studi culturali dell’Università.

Gli resta della terra d’origine quel parlare strascicato con la “evve” tipico dei parigini e una certa timidezza nel dialogo che, una parola si e una no, ti sembra ti chieda scusa di esserci. Per il piacere di vederlo e starci qualche minuto insieme, a volte lo vado a trovare a Bova Marina. Mi aspetta al solito baretto accanto al Municipio, mi offre l’immancabile caffè che sorbiamo inframezzato da quattro chiacchiere (ma proprio una due tre e quattro), che, introverso lui, introverso io, quasi ci dispiace interromperci, se parla l’altro, come se non avessimo cose importanti da dire per giustificare l’interruzione. Per questa assonanza caratteriale, per la sua irreprensibile timidezza, ho imparato a volergli bene a questo franco-italiano che invece esplode quando prende carta e penna e comincia a verseggiare.

Ha una lunghissima produzione di saggi, in volumi e riviste, che concernono principalmente la poetica, la storia della lingua francese, la traduzione, la sinonimia, la letteratura, la sociolinguistica e la lessicografia. Ha tradotto per alcune riviste francesi numerosi poeti italiani e nel 2006 è apparsa in Francia la prima traduzione dell’opera poetica di Gesualdo Bufalino: “Le miel Amer”.

Fra le sue numerose pubblicazioni: Diachronie, poésie et traduction, d’une langue à l’autre (2009); Paul de Roux entre éblouissement et enchantement, la langue du poème (2011); Les mots de l’enfermement. Clôtures et silences : Lexique et rhétorique de la douleur du néant (2012). È inoltre l'autore di due opere narrative: Faut pas faire de faux pas (2003) e L’hébétude des tendres del 2012.

A febbraio di quest’anno, finalmente, esce in italiano la raccolta antologica “Compitare nei cortili” per le edizioni Puntoacapo, con postfazione di Emanuele Andrea Spano.

Sono novantasei poesie scritte a partire dal 1985 con l’aggiunta finale di un “Autoritratto dell’autore da cucciolo mezzo cane e mezzo uomo, quasi una scimmia nel corridoio convesso in fondo”

Corona scrive:

“Per fare l’autoritratto di un autore per prima cosa basta dipingere una gabbia (un condominio? Una professione? Un labirinto? Un corteo razzista ad un crocevia?) con una finestra aperta (via di scampo, di fuga, via eccezionale) poi ritrarre qualcosa di carino semplicemente che sia bello e utile per l’autore…”

Con la parola ci gioca il parigino di Bova, senza metafore, senza doppiezze di significato, senza mai tradirla, innamorato fedele dei suoni onomatopeici, delle sillabe accostate, più vicino all’improvvisazione beboppiana di John Coltrane,

“scirocco trasgressivo

nevrastenico

astenico pensiero

arsenico e vecchi sberleffi

scherno schermo schermaglia

chi è il più stanco di questa gentaglia”

piuttosto che al blues classico, comunque presente almeno nelle prime composizioni 

“……..

dovrei fare finta di nulla

Ma ogni onda che s’infrange sulla riva

ha il ritmo di un tango

malinconico

……..”

Qui egli vive il mare, le spiagge, le alghe, il cuore

“e persino le cicale annoiate e monotone
e la pena dei nostri cuori desolati e affranti”

Corona suona la parola come con quelle moderne tastiere elettroniche che basta pigiarne uno di tasto per cambiare tonalità, timbrica, sonorità allo strumento, ma anche per cambiare strumento, se non, al colmo della parossistica estasi poetica, gestire tutta l’orchestra.

Ne vengono accostamenti di parole, frasi che possono avere un senso, ma anche no, perché non è il significato che fa la poesia di Corona, non in senso stretto almeno.

Ciò detto, attenzione a non lasciarvi sviare da queste riflessioni, come detto, da questa mia (ir)responsabile lettura dei testi poetici di René Corona, perché il poeta francese di Bova Marina sa armonizzare i suoni inventati, le parole a tutta prima accostate casualmente, in maniera che dall’accozzaglia iniziale di sillabe, egli trae ispirazione per sorprendenti voli lirici, crepuscolari tristezze gozzaniane al quale dichiaratamente in certi casi si accosta.

A proposito di accostamenti, ancor più René Corona si richiama al francese Charles Baudelaire specialmente per quei passaggi introspettivi, quando definitivamente assorbito il mito del poeta vate di dannunziana memoria, emerge dalle oscure profondità della mente il dissidio tutto dentro il simbolismo di Baudelaire, del poeta davanti alle difficoltà del vivere, con una poesia incapace di farsene carico di quel mestiere di vivere, che molto più tardi avrebbe sconfitto Cesare Pavese.

In Compitare nei Cortili René Corona richiama Baudelaire addirittura in una intera raccolta “Baudelairestrasse”

“…..

Le mie ali tarpate

il miele l’ambrosia sulle mie pene

ferite da rimarginare

concerti di melanconie

….”

 Lo ha sottolineato con grande sensibilità Dante Maffia a proposito delle poesie di questa prima raccolta italiana di Corona:

“…sono affondi nella psiche personale e in quella collettiva, sono ricerche di una danza estetica che si stacca dalla quotidianità e diventa fulgore che illumina la parola. René Corona è come se timidamente si insinuasse all’interno del vivere suo e degli altri e volesse trarre da ogni occasione l’attimo in cui la realtà si ubriaca di una suggestione e coglie l’essenza, anzi quel che di celestiale si nasconde dietro il suono delle sillabe, nel fondo di quella “geografia intima” che sa illuminare l’universale con tocchi che chiamerei magici”.

Compitare vuol dire  pronunciare distintamente e lentamente, staccando bene le lettere e le sillabe di ciascuna parola e le parole di ogni frase; dunque Corona non scrive versi, pronuncia sillabe e parole, le stacca per lasciarne apprezzare bene i suoni e lo fa nella semplicità dei cortili, lontano dalle aulicità dei palazzi culturali:

A volte sembra che egli lo faccia inconsapevolmente, altre volte no. Sta tutto in questa semplicità di intendimenti il valore davvero notevole della poesia di René Corona.

Valore riconosciuto al bovese di Parigi anche nel 2019 quando il Rhegium Julii gli assegna il Premio Speciale per la Poesia intitolato ad Alba Florio, certificando l’alto livello poetico dei versi di Corona e suggellando un bellissimo rapporto culturale tra il poeta e il celebre sodalizio calabrese.

Un libro tutto da decifrare, una raccolta da scoprire e riscoprire rileggendo i versi più volte. “Compitare nei cortili” mi ha ricordato certe cadenze liriche, certi ritmi nerudiani; invero ho ritrovato le assonanze e lo sfarfallio di suoni della migliore poesia dello sfortunato poeta di Melicuccà Lorenzo Calogero. Rileggendo alcuni passaggi critici sulla poesia del “medicu pacciu” scritti da Leonardo Sinisgalli, se non ve lo svelassi, potreste pensare che essi siano riferiti a questa bella, prima raccolta antologica in italiano di René Corona:

 

“…Siamo, è chiaro, di fronte a una poesia colta che, però, scarta il lusso intellettuale, l’enciclopedia, la sublime futilità, si preclude la scoperta fortuita, la generica…

…le sue parole distorte, i suoi nessi incredibili, i suoi lapsus sembrano trascrizione di uno stato di estasi. Egli descrive un sogno cosi minutamente, lo districa come fosse un materiale misurabile, la sostanza di un’altra vita, più resistente  

Ed è il miglior complimento che mi sento di fare al libro di René Corona, nato parigino e trapiantato nella bovesia di Calabria

 

QUALCHE PICCOLA CONSIDERAZIONE SULLA MIA POESIA

di René Corona

La parola è al centro del mio mondo perché la parola ha un corpo, è come una bella donna di cui ci si può innamorare. Ci sono parole Lucrezia Borgia, parole signorina Felicita, parole corsetto, parole guêpière o parole veletta, parole trappola, tè delle cinque, caffè dell’alba, parole prateria, parole nobili, parole meno nobili, parole del quotidiano, Victor Hugo però lo asseriva: le parole hanno tutte lo stesso diritto. Parole di buio di luce e di sole, di pioggia (molte), hanno un corpo che suona una musica e un senso che va e viene come la risacca sulla spiaggia. Due parole insieme creano un’immagine ed il modo in cui questa appare sulla scena ha del miracoloso. Paul Valéry parlava di un dono degli dei.

Queste parole sono di tutti e io le prendo in prestito (tanto, pare che si usino pochissime parole nel parlare), sono un loro affittuario, alcune mi sfuggono, (prendono, come dicono i francesi, la chiave dei campi), anche se, prima o poi, ritornano più tardi, altre si scontrano con quello che vorrei dire, imprecise o indelicate, le lascio sul margine della pagina a pascolare, la pagina come un prato dall’indovinello bellunese o veronese. Il guaio quando uno parla più lingue è di fare d’ogni erba un fascio (fascio è parola poco gradevole in questi tempi), diciamo un bouquet ma per citare Mallarmé la più bella (per me delle parole) è l’absente de tout bouquet.

Barocca o popolare, la parola scivola come un acrobata sull’altalena dei giorni sonori e vola via tra le stelle come il clown di Banville. E mi si perdonerà il fatto che io m’impossessi di ciò che Rimbaud disse alla madre a proposito della Stagione in Inferno: “Ho voluto dire ciò che il testo dice, letteralmente e in tutti i sensi.”

Camminare mi aiuta soprattutto nelle prime ore del giorno. Quelle che chiamano alba, aurora, crepuscolo del mattino, dilucolo, orto … I passi suggeriscono il verso o i passi anticipano il verso; il paesaggio che si sveglia rinforza la dicitura, il compitare. La musica di fondo è offerta generosamente dal canto degli uccelli mattutini.

Parlare della mia poesia, comunque, è un po’ come, riprendendo un koan del buddismo zen, citato da Joël Thomas in un volume di saggi sull’immaginazione, al momento che si sta parlando di una cosa quella cosa ti sfugge; oppure parafrasare Agostino a proposito del tempo: se nessuno mi chiede di definirla lo so, appena mi si chiede una spiegazione e io tento di spiegare, non so più andare avanti, non lo so più.

………

(tratto dall’intervento in occasione della presentazione del libro a cura del Rhegium Julii il 14 giugno 2019 a Reggio Calabria)