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Categoria: Carta bianca
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di Anna Foti

"Sono andato al parco, quella sera, perché volevo fare una cosa per me. Ma siccome non era questo il mio destino è successo che ho fatto una cosa per tutti". Così Giuseppe - come riportato nel volume "Muori cornuto. Giuseppe Zangara, l'uomo che tentò di uccidere il presidente Roosevelt" di Arcangelo Badolati e Peppino Mazzotta, stasera al centro della conversazione in programma alle ore 21:30 al circolo Polimeni di Reggio Calabria, nell'ambito dei Caffè Letterari del Rhegium Julii - risponde all'agente che lo interroga nel tentativo di trovare prove circa la presenza di altri complici e di un complotto criminale contro la civile società Americana. Quella stessa che nel secolo scorso consentì di oltrepassare le sue  frontiere a tanti poveri emigranti italiani, e soprattutto meridionale, per poi sfruttarli, maltrattarli, relegarli ai margini, discriminarli, tradendo il sogno americano di un riscatto negato in Patria e da conquistare Oltreceano, seppur con fatica, ma con dignità.

Lui è Giuseppe Zangara, di origini umili. Nato a Ferruzzano, in provincia (oggi città metropolitana) di Reggio Calabria, nel 1900. Sua madre era morta dandolo alla luce mentre suo padre lo aveva sempre maltrattato. Per lui la scuola era finita presto e presto erano iniziate le fatiche nei campi. Ad un tratto l'Italia si era accorta di lui e lo aveva spedito a combattere sul Carso, durante la Prima Guerra Mondiale. Era sopravvissuto. Ad attenderlo c'era stato poi anche il servizio di leva militare. All'età di 21 anni, da una Calabria povera e allo stremo, da ciò che restava della sua famiglia, Giuseppe era partito per andare incontro, come tanti della sua generazione, ad un destino di immigrato negli Stati Uniti. Aveva raggiunto lo zio Vincenzo e si era stabilito a Paterson, nel New Jersey, dove attese nove anni prima di diventare cittadino americano. Il suo destino di immigrato italiano negli Stati Uniti si compì in modo tragico il 15 febbraio del 1933, al Bayfront Park di Miami, quando tentò di uccidere il presidente Franklyn Delano Roosevelt. Mancò il bersaglio e uccise il sindaco di Chicago Anthon J. Cermak. Un errore che gli costò il sospetto, per lui motivo di indignazione, che fosse un sicario della malavita. Invece lui non negò mai di voler uccidere il presidente, in quanto simbolo di uno Stato e di un Capitalismo che stritolava le persone, impedendo loro una vita dignitosa e qualsiasi forma di ascensore sociale e di meritato riscatto. 

Lungi dal tesserne le lodi di eroe o dal voler giustificare l'azione criminale di Giuseppe Zangara che attentando al presidente americano Roosevelt uccise un altro uomo e ne ferì altri, "Muori cornuto. Giuseppe Zanagara, l'uomo che tentò di uccidere il presidente Roosevelt", scritto dal giornalista Arcangelo Badolati e dall'attore Peppino Mazzotta, consegna al nostro tempo uno spaccato della Storia della Calabria e dell'Italia negli Stati Uniti all'inizio del secolo ormai scorso. Un frangente lungo e tormentato in cui la società statunitense non mostrò certo il meglio di sé nel trattamento degli immigrati, tradendo così ogni ideale di società Libera e Giusta per tutti. E' un prezioso lavoro narrativo e teatrale, edito nel 2019 da Luigi Pellegrini Editore, fedele ad una ricostruzione che non lascia indietro neppure la lingua dialettale, insostituibile e densa di significato.

La figura di Giuseppe Joe Zangara non è alla ricerca di riscatto ma è una storia di vita, di ribellione, di emigrazione, di sradicamento forzato, di violenza, a lungo subita e in un attimo perpetrata, e come tale va raccontata. Giuseppe incarna il malessere e l'indignazione di una generazione schiacciata dal progresso e dal capitalismo senza possibilità di avere voce. Un valido contributo all'analisi della complessità del contesto storico di riferimento e delle contraddizioni del tempo è dato da questo lavoro di ricostruzione che consta di due parti, una letteraria e una teatrale, ispirate al memoriale che Giuseppe Zangara scrisse durante la sua detenzione, con degli innesti di finzione funzionali alla trasposizione sulla scena.

"Avrebbe voluto tuffarsi nell'oceano per lavarsi del peso dei ricordi ma non sapeva nuotare. Nessuno gli aveva mai insegnato a stare a galla, a muovere le braccia, a battere i piedi. A sei anni, il padre s'era solo preoccupato di scaraventarlo nei campi ad arare, a guardare le mucche, a patire come se fosse già grande". Quella malinconia avrebbe presto lasciato il posto alla determinazione di farsi giustizia in un paese che gliela negava in ogni modo, incarnando lo strapotere dei ricchi sui poveri e sugli emarginati, che tali avrebbero dovuto restare per sempre. Rispetto a tale destino ineluttabile Giuseppe Joe Zangara si era sentito chiamato ad agire, ad andare in "missione" in nome delle "brave persone", dei "sottomessi di ogni specie".

Non era innocente - e infatti mai si era proclamato tale - come lo erano  invece Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, anche loro emigranti italiani, anarchici e per questo perseguitati, anche loro giustiziati sulla sedia elettrica qualche anno prima, il 23 agosto 1927 a Charleston. Condannato per omicidio, Giuseppe Joe Zangara muore sulla sedia elettrica il 20 marzo del 1933 a Raiford, all'età di trentatre anni. Muore per sentenza dopo avere ucciso un uomo. Muore nel tentativo estremo di innescare un cambiamento e di creare un mondo più giusto per tutti. La sedia elettrica, utilizzata fino alla metà degli anni Ottanta per l'esecuzione delle condanne capitali negli Stati Uniti, fu sostituita dall'iniezione letale considerata un metodo meno degradante e doloroso. Un autentico slancio di umanità per l'unico paese occidentale a rientrare ancora tra i 76 che ancora mantengono la pena di morte.

Era colpevole, Giuseppe Joe Zangara, e mai lo aveva negato. Aveva ucciso un uomo e ferito altre persone Il suo animo era provato da questo dolore inferto ad altri ma il suo spirito, così assaltato da una vita di privazioni e sacrifici che con tanti altri della sua generazione senza voce aveva subito, e il suo istinto di sopravvivenza attraverso il cambiamento furono le uniche ragioni che egli fino alla fine perorò. Era colpevole ma non di essere un sicario della mafia, ma di aver ucciso e di non essere riuscito a trovare altra strada che quella, per la sua missione a difesa degli ultimi, per la sua denuncia di quella storia di umiliazioni, abusi e violenze continui, che anche lui aveva subito lontano dalla sua patria, per il suo atto di accusa a quell'epoca in cui tutto diventava di pochi e il nulla restava a tutti gli altri. Era colpevole, certo, ma per questo meritava di ritrovarsi solo contro la Giustizia dei Potenti e non al cospetto della Giustizia dei Giusti. “Il suo 'delitto contro lo Stato' viene punito con un 'delitto di Stato'”, ha scritto l'attore e regista di teatro Ernesto Orrigo. 

Gli emigranti italiani, in quel frangente storico-sociale, incarnavano in modo drammatico l'agire indisturbato di una società americana, emblema di un Progresso che aveva il pregiudizio nel suo dna, che invece di produrre benessere, dilatava e aggravava le disuguaglianze sociali ed economiche. Gli Stati Uniti, così forti di un saldo orgoglio nazionale, si mostravano anche così capaci di profonda indifferenza e noncuranza per il prossimo, rimasto o lasciato indietro, così capaci di alimentare per gli immigrati un contesto gravido di tensioni, persecuzioni, ingiustizie sociali, angherie, soprusi e profonde discriminazioni basate sulle origini, sulla provenienza, sulle idee, sul credo politico. Questo era il quadro.

Il giorno dell'attentato, durante l'attesa di Roosevelt, Giuseppe "Ripensò all'America, a cosa fosse davvero quella immensa nazione piena di contraddizioni. Un luogo nel quale i confini tra il bene e il male erano fragili: la politica, il potere, la legge, le ragioni di diritto, il senso della giustizia e, subito dietro l'angolo, l'ombra di un inganno. (...) In ogni angolo degli Stati Uniti si ripeteva, in forma più evidente, quanto aveva già visto in Calabria: i buoni e i cattivi finivano con lo stare insieme per prosperare e arricchirsi sulle spalle della povera gente".

Giuseppe Zangara conosceva a fondo il suo tempo. Lo aveva conosciuto in Calabria ai margini e l'aveva ritrovato nella patria del progresso ingannatore e delle promesse tradite. Ne aveva colto i dilemmi, lavorando la terra immerso in una natura materna e anche ostile: qui aveva declinato il suo senso di giustizia e coniugato il suo spirito ribelle, apprendendo l'unica grammatica a lui accessibile, quella della fatica, della mancanza, degli stenti materiali e affettivi. "Il profumo delle ginestre a primavera, l’odore del mosto che dopo la vendemmia faceva le bolle dentro i tini, le grida felici della mietitura. Tutta la sua vita era stata una mancanza, sua madre l’aveva mollato per il cielo che aveva solo due anni e lui quel cielo perennemente azzurro l’aveva sempre odiato. La scuola l’aveva mollato, mandandolo nei campi dopo i primi due mesi. E gli erano mancati solo pochi centimetri con i quali si sarebbe aggiustato la mira e avrebbe vendicato gli oppressi del mondo. E dopo trentatré anni l’avrebbe mollato la vita, e lui il supplizio della sedia elettrica lo voleva affrontare con più gioia di Nostro Signore. Non aveva paura di morire, solo non gli andava giù di farlo senza un giornalista che raccontasse del suo coraggio, per questo incitava il boia a fare in fretta. E non gli andava giù di averlo fallito il suo obiettivo", scriveva nel 2019 sul Riformista Gioacchino Criaco.

Negli Stati Uniti Giuseppe Joe Zangara aveva dimostrato di possedere il distacco per un'analisi lucida di una Calabria ai margini dei margini, dalla quale era andato via non senza portare con sé quel "pugno di case aggrappate alla collina che guarda al mar Ionio luminoso e profondo. E' un mare antico, solcato prima dai Fenici e poi dai Greci, raccontato da Omero e immaginato da Virgilio. La costa, invece, arsa dal sole e abbeverata da torrenti e fiumare, secchi d'estate e gonfi d'inverno, è un impasto di colori cangianti. Al verde broccato della primavera s'oppongono il biondo bruciato d'agosto e il marrongrigio di cui si vestono l'autunno e l'inverno. Ferruzzano vive di agricoltura e pastorizia, sorge lontano dalle città più grandi e conserva il fascino segreto delle comunità piccole e isolate (...) Il vento batte scostante e furioso nei giorni di burrasca (...) E' una lotta spaventosa che può andare avanti per ore, una sfida che la Natura muove agli uomini per saggiarne la forza e la resistenza ".

Non è casuale la scelta di aprire il volume con la descrizione del "Paese", così pregna ed intensa da avvincere il lettore che, pagina dopo pagina, anche quando cambia il registro da narrativo e teatrale, non avverte frattura alcuna ma resta coinvolto e avvolto nel flusso del racconto di una storia di ribellione mai rinnegata, mai barattata con la paura, mai neanche sopraffatta da una coscienza che non fosse quella di un uomo alla ricerca esasperata di un cambiamento affinché il grano fosse coltivato per fare il pane e non bruciato per fare soldi.

L'epilogo finale è affidato a Giuseppe Zangara sulla sedia elettrica. Non siamo più in Calabria ma lo spirito che dirompe è quello di un calabrese."Se ai soldi facciamo fare una bella fiammata, bella, grossa e liberativa, cambia tutto. Cambia il mondo! Mio padre mi massacrava di botte perché era povero... e la fame gli aveva dato alla testa. Io ho preso bastonate tutta la vita e per anni non mi sono lamentato. Pensavo che me le meritavo e più me ne davano più me ne aspettavo. Poi, però, ho capito. Ho capito che io sono uno e voi siete tanti. Ma questo non vuol dire che avete ragione (....). Arrivederci a tutti i poveri del mondo. Viva l'Italia!".