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di Natale Pace

Il 25 marzo, dicono gli agiografi e le biografie ufficiali di Lorenzo Calogero, ricorre il sessantaduesimo anniversario della sua morte.

Ecco, il “caso Calogero” ovvero il mistero della vita e della morte del poeta di Melicuccà comincia dalla fine. Perché in effetti la reale data di morte dovrebbe essere anticipata al giorno precedente, quando il suo corpo è stato ritrovato, ma più correttamente al 21 di marzo a dar credito al certificato del l’Ufficiale sanitario di Melicuccà, mentre il 25 è stato soltanto stilato il certificato.

Sono state ricostruiti gli ultimi giorni di vita.

E’ stato visto dai concittadini per l’ultima volta vivo il 21 marzo mattino, quando, di ritorno dalla chiesa, si è chiuso in casa, solo con la sua coscienza e le patofobie, le ansie depressive che non lo hanno abbandonato mai, sin dalla gioventù: Il fratello Francesco, che solitamente e a periodi più o meno lunghi lo andava a trovare insieme a una sorella per sincerarsi delle sue condizioni di salute, trovando la porta sbarrata, chiese aiuto per scassinarla e lo trova morto sul lettino, tra polvere e sporcizia, macchie di caffè dappertutto, cicche di sigarette totalmente consumate, confezioni di medicinali e un biglietto scritto su mezzo foglio strappato a uno dei suoi quaderni, lasciato in bella vista, con poche parole vergate a mano, scritte nervosamente appena sul rigo:

“Vi prego di non essere sotterrato vivo. L.C.”.

Da diversi giorni si recava in parrocchia a confessarsi ed a prendere la comunione.

Era il terzo suicidio, dopo due falliti tentativi nell’arco della sua breve vita, stavolta riuscito? Parliamone!

La laurea e la professione di medico, sia pure poco praticata, gli consentirono certamente di capire perfettamente le condizioni estreme di salute in cui si stava dibattendo negli ultimi mesi: la malnutrizione e denutrizione (qualche pietoso vicino di casa in qualche modo, ma raramente, gli portava del cibo che non sempre consumava), l’eccessivo uso e abuso di grandi macchinettate di caffè e di tanti pacchetti di sigarette, ma soprattutto di barbiturici – Tallofen, Luminale e Miltaun -  per sedare le tempeste patofobiche della mente con le quali continuamente ha sempre convissuto, ma che negli ultimi tempi si erano drammaticamente accentuate.

Egli sapeva che il fisico alla lunga non avrebbe retto, la morte la sentiva vicina, ma il 18 marzo scrive quella che probabilmente è la sua ultima lettera, e la scrive al suo amico fidato, a Giuseppe Tedeschi:

“… dopo due volte che ho tentato quasi un suicidio, o ho tentato di suicidarmi, credo che non mi verrà mai più un’idea del genere per la terza volta”.

Collegandola al laconico messaggio si potrebbe immaginare un triste avvertimento:

“Attenzione, sento che sto morendo, ma non intendo suicidarmi per la terza volta e gli abusi, specialmente di barbiturici per i quali potrei avere ormai una pericolosa assuefazione, potrebbero anche portarmi a una morte apparente. Attenzione a non sotterrarmi ancora vivo!”

Badate, egli scrive “vi prego di non essere sotterrato vivo”  che non è la stessa cosa di “vi prego di non essere seppellito vivo”. Dalle nostre parti il termine “sotterrato” attiene in maniera più concreta e materiale al mettere sotto terra, piuttosto che il “seppellire” più generico e che qualcuno ha voluto intendere come una ultima disperata preghiera affinché con la sua morte non cada nel dimenticatoio, non vada seppellita anche la sua poesia. Dunque è presumibile che egli temesse l’accadimento di una morte apparente e da qui l’avvertimento con l’ultimo biglietto. 

Ma altri ragionamenti mi aiutano in questa confutazione della ricorrente tesi del suicidio, a favore di una più probabile teoria della morte per inedia e disperazione, nella quale trovo anche qualche condivisione importante se è vero che essa è sostenuta, per esempio, dalla poetessa  Amelia Rosselli, che da molti critici è considerata l’erede spirituale di Calogero e da uno dei più ferrati studiosi calogeriani, quel Giuseppe Antonio Martino, recentemente scomparso, la cui famiglia era dirimpettaia alla villa di Calogero e al quale il poeta aveva fatto da padrino di battesimo. Egli racconta:

“I vicini di casa lo hanno visto per l’ultima volta, quella mattina (il 21 marzo n.d.a.) al ritorno dalla chiesa in cui lo zio, suo omonimo, aveva per anni esercitato il suo ministero sacerdotale, dove si era recato per fare la comunione […] Subito dopo la morte qualche giornalista ha sperato che fosse il confessore a gettare luce sull’enigma, ma Don Michele Dell’Arena, l’allora parroco di Melicuccà, non venne mai meno al vincolo del segreto della confessione”

E poi Martino aggiunge misteriosamente:

“A lui (al parroco n.d.a.), io stesso, alcuni anni più tardi […] ho cercato di rivolgere delle domande sulla morte del poeta, ma non mi ha mai dato risposte inequivocabili. Spesso, però, ribadendo le norme liturgiche che vietavano allora, prima del Concilio Vaticano II, i funerali religiosi ai suicidi, ricordava di aver celebrato egli stesso le esequie del poeta, in Chiesa”.  (Giuseppe Antonio Martino – È morto o ha voluto morire – Intervento al Convegno internazionale su Lorenzo Calogero, Arcavata di Rende, 4-6-febbraio 2010).

         Ancora un particolare interessante: l’ufficiale sanitario di Melicuccà ha refertato la morte risalente, come dicevo, al 21 marzo 1961 e dovuta a “infarto del miocardio” e non ha ritenuto necessario disporre l’autopsia per ulteriori accertamenti.

         A parte la non condivisa interpretazione dell’ultimo messaggio di Calogero, la tesi prevalente del suicidio viene da molti sostenuta rileggendo il testo di quella che viene considerata la sua ultima composizione poetica, ritrovata nell’ultima pagina di un notes lasciato sulla scrivania, quell’Inno alla Morte, ritenuto il testamento poetico di un’anima ormai perduta e desiderosa solo di lasciare la residenza terrena:

 

Ma non m’interessa più della vita.

Oggi mi curo della morte.

Fra poco e alla svelta morrò,

perché anche tu con me sul lago

verrai domani. E la pelle è adunca

o si screpola appare sbadiglia.

Con te tergiversare non vale una lunga pena.

Poco m’interessava ella - ;

ora vergine sbadiglia

e il sangue è fluido o è la medesima cosa

Tu come un giunco fresco

un narciso hai messo alle nari.

 

Ecco, anche questi versi, a volerli interpretare più correttamente e per quanto possa essere interpretata la poesia e quella di Calogero in particolare, non fanno altro che confermare quanto detto prima: egli sapeva, sentiva materialmente, da medico, il disgregarsi del corpo: “E la pelle è adunca/o si screpola appare sbadiglia”, capiva che perché quel corpo che si stava screpolando, riprendesse vigoria, ‘era necessario che egli volesse lunghe cure riabilitative della mente prima e del fisico dopo, ma soprattutto serviva che egli, la sua mente decidesse di abbandonare, o almeno scemare, il sacrificio di se stesso alla poesia.

Invece: “poco m’interessa ella/ora vergine sbadiglia” (la parola ripetuta due volte a reiterare l’abbandono voluto del corpo, annoiato). Questa ultima straordinaria composizione è, a mio parere, un lungo canto alla poesia, idealizzata:”Tu come un giunco fresco/un narciso hai messo alle nari”, personificata come una vergine che lo accompagnerà nell’ultimo viaggio, unica a non lasciarlo mai solo: “perché anche tu con me sul lago/verrai domani”.

Ma a “Zino Calogero” il poeta matto di Melicuccà, questa volontà di mantenere in vita il corpo gli mancava o, comunque, era meno vincente della volontà di non abbandonare la poesia e, dunque, non ha fatto nulla e si è lasciato morire.

D’altra parte il dialogo con la morte in Calogero non è una novità dell’ultima ora. I due tentativi di suicidio, nel 1942 con un colpo di pistola al cuore e nel 1956 recidendosi le vene dei polsi durante il primo ricovero nella Clinica per malattie Mentali di Villa Nuccia a Cagliano in provincia di Catanzaro, ebbero entrambi motivazioni e crisi esistenziali in stretto rapporto con la madre. Nel 1942 il tentativo fu preceduto da una serie di lettere alla madre dove le raccontava le sue vicissitudini patologiche, le sconfitte e le incomprensioni che la vita gli riservava; nel 1956, la crisi fu generata proprio dalla morte della veneratissima madre che, comunque, aveva rappresentato per lui l’unico, vero, anche se non vincente, punto di sostegno umano.

Si diceva dunque che il pensiero della morte lo aveva accompagnato per tutta la vita, anche nei versi e interpretato come un momento importante, ma normale, dell’uomo:

“Morte mi chiama/col suo passo leggero/come in un sogno” e ancora: “Dovevo morire/per rinascere dalla morte/si come volevo non accorgendomi, badare all’infinito”  scriveva nella raccolta “Poco Suono” (1933-35); oppure in “Ma questo” (1950-54): “Vedi! S’abbarbagliano i morti. La sfera non è che un ritmo./O si ferma o va a passo appena” ; oppure in “Sogno più non ricordo” (1956-58: “Sorella morte era di già.

Mobile giunge, ora, veloce notte,/chiusa e rapida che ti rapì./; oppure ne “I Quaderni di Villa Nuccia” (1956-60) in una del 1960 scrive: “… oggi cammini con un sorriso empio/e non so quale sia della mia morte il futuro./Ma incomincia come un’eco un’altra giornata/ed è superfluo e zoppico: oggi mi avvicino/al muro come le esili foglie di questa pianta./

         Dunque sono tanti i particolari che non mi convincono del suicidio di Zino Calogero e sono molti di più invece quelli che m’inducono a pensare a un uomo vinto dalla solitudine, dalla depressione lunga una vita, minato il fisico dagli abusi, che lucidamente, sapendo che stava lentamente morendo, nulla fece per impedirlo, lasciandosi lentamente consumare. In un barlume di lucidità ha previsto anche che il misto di caffè, sigarette e barbiturici presi in dosi sempre più massicce avrebbe potuto portarlo a una morte non morte ed ha avvertito quelli che lo avrebbero trovato inerme: “Vi prego di non essere sotterrato vivo”

Non è stato sotterrato vivo, ma lo hanno ucciso un’altra volta adoperando la sua morte per montare un caso letterario che in questi sessantadue anni ha sviato l’attenzione del mondo dai suoi versi. Perché ha fatto più notizia il poeta maledetto, ha suscitato più attenzione paragonarlo a Mallarmé e Valery, lui lontano anni luce dal maledettismo dei francesi.

         È stato più semplice per tutti gettarsi a capofitto sul personaggio, accentuandone la misteriosità che dedicarsi alla sua poesia, ai contenuti, alle rivoluzionarie assonanze di parole e parole, leggere e interpretare gli ottocento quaderni zeppi di versi, difficilmente trascrivibili, da interpretare. Per questo serviva creare l’alone mistico del suicidio, del poeta maledetto, per questo a distanza di 62 anni le migliaia di versi, in 800 quaderni, giacciono inermi, non solo non pubblicati, ma in massima parte mai letti da alcuno, negli archivi dell’università cosentina.

Come quando egli era in vita, anche da morto, la poesia di Calogero non interessa, non attrae, per la sua illeggibilità, per la insormontabile difficoltà ad inquadrarla in un movimento, in una scuola, per la tragica ineluttabilità del verso a farsi riconoscere.

In poche parole il “caso” umano Calogero ha prevalso sulla poesia calogeriana e per questo serviva dare in pasto all’opinione pubblica il suicidio piuttosto che affannarsi a leggere e far leggere i suoi versi. In tal modo egli è morto due volte.

E invece sarebbe ora di utilizzare la vita e la morte del “medico pazzo” melicucchese per capire i suoi scritti, per decifrarne in qualche modo i contenuti, per inserirli e renderli parte di questo tempo che egli non ha vissuto, lasciandosi da esso tempo vivere.

Oggi chi sollecita più l’attenzione sulla poesia di “Zino Calogero”?

Hanno praticamente ceduto le armi i ragazzi che nel ’63 (e c’ero pure io) promossero Calogero attraverso il Circolo Culturale melicucchese a lui intitolato: i Paolo Martino, i Bagnato, gli Stival, i Borgia, morto qualche settimana fa il povero Giuseppe Antonio Martino, che più di tutti fino all’ultimo a insistito a pubblicare saggi e articoli biografici, silenziosa tutta la critica calabrese e nazionale, ormai dimentica di uno che si lasciò morire per la poesia, c’è un  americano John Taylor che nel 2013 ha tradotto in inglese le poesie di Calogero, pubblicandole sulle riviste letterarie “The Bitter Oleander e su il “Journal of Italian Translation e per questo l’Accademia dei Poeti Americani di New York gli ha conferito il Premio “Raiziss de Palchi”; C’è Nino Cannatà, tra gli ideatori di un interessante “Gruppo Sperimentale Villa Nuccia” che ha lanciato il Progetto Calogero e ci sono pochi altri che nel silenzio più assordante, nel tempo, si sono occupati di Calogero con volumi e saggi.

Ma sono mosche bianche e interessamenti saltuari che non rendono il dovuto a un grande autore di poesia che per poesia non si è suicidato, ma si è lasciato morire.

In una bellissima lettera di Leonardo Sinisgalli a Giuseppe Tedeschi per presentargli Calogero, il poeta lucano scrive:

“… un poeta nel vero senso della parola. Ha avuto tanti guai, vive in un paese sperduto della Calabria, solo e abbandonato, nessuno lo conosce, io stesso l’ho scoperto per caso, vedi che può capitare in questo paese, se non si è nel giro, non si esiste [… Gli ho fatto qualche articolo, gli feci una presentazione a un libro, gli feci vincere il Villa San Giovanni, pensando che altri, i critici, lo scoprissero. Nessuno si è accorto di niente. È malato, fuori dalla vita organizzata. È un po’ impedito, quando venne a trovarmi a Civiltà delle Macchine stava cadendo per le scale […] Mi scrive lettere lunghissime, non riesco a leggerle per intero, fitte-fitte, mi cita cose complicate, mi descrive l’amore per una donna, in tutte le variazioni. È di famiglia nobile, proprietari calabresi, i fratelli avvocati e farmacisti. È laureato in medicina, poi a Campiglia d’Orcia in provincia di Siena [Qui fu colto da una crisi di patofobia, credè di avere il cancro, la tbc. Si ritirò al paese di nascita, è stato in cliniche per malattie nervose. Avrà 10-15 mila versi, ha pubblicato tre libri fittissimi, cinque-seicento pagine ognuno, dice che ha altri cinque quaderni pronti. Bisognerebbe fargliele pubblicare, non può rimanere abbandonato, gli si deve qualche soddisfazione, almeno per questa furia mostruosa che ha nel costruire versi e nel dedicarsi alla poesia …”

La stagionatura delle rime poetiche di un autore non finisce mai e come il nostro legno d'ulivo, più stagiona più è pregiato. Il problema di Calogero è che nel suo caso stagionatura uguale dimenticanza, uguale trascuratezza, uguale incultura di una regione, di un Paese dove la valorizzazione delle risorse culturali e gli uomini di cultura marciano a diverse velocità. A mio parere, Zino Calogero è uno di quei poeti la cui complessità e multi-varietà di suoni lo condanna a tempi molto lunghi. Nel tempo in cui la cultura viene mercificata e globalizzata, la poesia solitaria e difficile di Calogero, la sua poesia "fonica" avrà bisogno di decenni, forse ancora più tempo prima di trovare il posto che le spetta.